Il rito di Ingmar Bergman

Qualche tempo fa vi ho parlato del film A Dark Song. Senza che vi linki l’articolo riassumo in due righe: è la storia di un mago e una donna disperata che praticano un rituale molto complesso. Quando i demoni si manifestano, in una specie di quadretto famigliare, ho riconosciuto la citazione (voluta o meno poco importa) de L’ora del lupo di Ingmar Bergman.

E siccome da cosa nasce cosa, da film spunta film, da disco si passa ad altro disco e così via in un colloqui medianico con l’arte e gli spiriti che l’hanno nutrita, sono andato a rivedermi il solo tentativo da parte del regista svedese di affrontare il lato oscuro dell’esistenza in maniera diretta, quasi sfacciata.
Come tutti i grandi autori, Bergman offre una vasta gamma di emozioni, nei suoi capolavori. Spesso i drammi migliori sono ironici, commoventi e  incubi a occhi aperti. Talvolta le incursioni della magia e dell’onorico sono dietro l’angolo. Basti guardare Il volto o Il posto delle fragole, giusto per dire un paio di titoli che mi tornano in mente.
Ma come tutti i veri creativi che vogliono affrontare di petto l’horror dopo avervi flirtato spesso e volentieri, Bergman fallisce l’obiettivo. Vero, L’ora del lupo esce appresso al suo più grande capolavoro, Persona, che è culmine assoluto di un periodo particolarmente fecondo e bla bla. Prima o poi avrebbe dovuto tornare sulla terra, ma è sempre un’esperienza che merita.

L’ora del lupo è un timido passo nella giusta direzione, dice Ingmar nel suo libro Immagini e in effetti di strada ne fa troppo poca sull’Isola misteriosa, popolata di creature a metà tra angeli e insetti, spettri di lussuria e caricature grottesche di un pittore in delirio.
Già che ero tornato nella casa del vecchio e tetrissimo Bergman però ho deciso di guardare un altro dei pochi titoli che mi mancano da vedere: Il rito. E non è stato un caso, in realtà. L’ora del lupo ha fatto da ponte ma io lì dovevo arrivare. Il vero parente di A Dark Song che andavo cercando era proprio questo.

Non si parla di magia ne Il rito ma quasi. Non si parla di satanismo ma quasi.
La trama è questa. Un trio di attori è sotto inchiesta dopo che le autorità hanno censurato un loro numero esplicito e sconcio. Il film è tutto incentrato sul confronto fra gli artisti e il giudice che li interroga. Inutile dire che l’unico a finire per immolarsi sul palco sarà proprio lui.
Se pensate sia un film noioso vi anticipo che c’è la poligamia, lo stupro, piromania da letto, falli grossi così, proto-squirting e una delle attrici più sensuali che ci abbia donato la terra di Svezia, Ingrid Thulin. Non immaginate orge, è tutto sotteso, ma c’è. De Il rito però a me interessa più l’esoterismo che la trasgressione.

Per la maggior parte del film non si capisce di cosa tratti questo numero censurato. Se non fosse per il titolo che lo suggerisce, i dialoghi tra i quattro personaggi non offrirebbero spunti a riguardo. Solo alla fine il numero processato ci viene mostrato e capiamo.

Mentre la Thulin indossa la parrucca che rammenta il casco di serpi della Medusa, gli attori, Gunnar Björnstrand e Anders Ek, spiegano al giudice, prima di rappresentarlo a suo uso e consumo. Lei è a seno scoperto con un tamburo tra le gambe. I due sfoggiano costumi a metà tra teppisti medievali e gli adoratori arcadici del dio Pan.  “Come provocare un’invocazione. Gli attori sono molto superstiziosi, lei lo sa. Il desiderio di accostarci a un rito forse in sé non ha alcun senso ma l’impulso di inginocchiarci e congiungere le mani qualche volta ci è capitato. Un gioco rituale. Un incantesimo, una formula, un incontro, una specie di dialogo. Non conosco la complessità dell’animo ma presumo che un simile desiderio abbia un nome latino. Dottore, lei avrà conosciuto la debolezza… una sensuale smania di sentirsi annullato nell’umiliazione… Forse da bambino?”

Bergman riguardo a questo film riconduce l’idea all’origine sacra del teatro, in Grecia. Gli attori erano come sacerdoti. Ciò che facevano sul palco creava un contatto con gli dei. Oggi solo il 10 per cento di quella magia noi riusciamo ad avvertirla, quando finisce il film o termina la rappresentazione a teatro e ci avviamo verso casa. Siamo pervasi da una sorta di post-sbornia visivo, è un graduale e un po’ scontento risveglio al mondo che abbiamo lasciato due ore prima. Immaginate gli antichi, convinti della potenza religiosa delle tragedie. Deve essere stato corroborante al massimo grado una rappresentazione, per loro. Non era intrattenimento ma comunione. Non era annullamento ma espansione. Non era un’esecuzione virtuosa ma liturgia. Era un rito. Quello che i tre attori vogliono attuare in un moderno teatro svedese è un risveglio magico.

Però i costumi priapeschi, il vino sparso come sangue e poi bevuto in una sorta di eucarestia blasfema sgomentano le autorità e via con la censura e le penali da pagare. La piccola compagnia per di più è in serie difficoltà economiche, per quanto sia amata e seguita dal pubblico. I tre inoltre hanno una relazione sentimentale, un menages che il giudice indovina presto. Lui biasima, però appena può violenta la Thulin.
E questo dando prova di brutalità inaspettate, visto che nella prima parte del film si fa mettere sotto come un bimbo dalla foga satanista di Anders Ek, il più fragile e nevrotico dei tre attori, ma anche il più virulento nell’attacco al potere.
Ek e il giudice parlano di sudorazione eccessiva, di vigliaccheria e di fede. Ecco lo stralcio che l’attore rifila al suo carnefice prima di schiacciarlo sotto le scarpe.

“Mi manca una professione di fede e non appartengo a nessuna comunità. Non ho mai avuto bisogno di nessun Dio o di salvazione o vita eterna. Io sono il mio proprio Dio, mi fornisco i miei angeli e i miei demoni. Sto su una spiaggia pietrosa, che ondulata scende verso il mare protettivo. Un cane abbaia, un bambino piange, il giorno tramonta e diventa notte. Lei non potrà mai farmi paura. Nessuna creatura umana potrà mai più farmi paura. Ho una preghiera, che rivolgo a me stesso nel più completo silenzio: possa giungere un vento a scuotere il mare e il soffocante crepuscolo. Possa un uccello venire fuori dall’acqua e rompere il silenzio con il suo grido”.

Non è uno dei migliori film di Bergman, Il rito, però ha dei momenti di grande potenza e inoltre è sconcio senza averne l’aria. Con il suo bianco e nero austero, i monologhi deliranti e le pose da cinema d’essai, finisce per mimarci un violento ditalino risolutorio e attraverso il viso grondante del giudice patetico e lascivo, trasmette afa e repulsione.

Alla fine il rito inscenato dagli attori è il mezzo per la vendetta nei confronti del potere censorio, prepotente, animalesco e bavoso. Come nel caso de La fontana della vergine, dove i banditi stupratori sono trucidati dai parenti delle vittime anche qui la violenza sulla Thulin è riscattata con la completa umiliazione del giudice, strisciante e piagnucoloso, incapace di capire davvero la grandezza di ciò che vorrebbe contenere: l’arte è la cosa più vicina alla vita, tagliar via un pezzo di vita perché può offenderci è la cosa più puerile e nazista che ci sia. Chi taglia un’opera d’arte dovrà vedersela con tutto quel sangue.