L’ape regina di Marco Ferreri – La sottile membrana tra morte e amore

La maggioranza degli esseri viventi sente confusamente che un che di fortuito e precario, poco più di una membrana trasparente, separa la morte dall’amore, e che il desiderio profondo della natura è che si muoia non appena trasmessa la vita. Maurice Maeterlinck – La vita delle api

L’ape regina, esordio italiano del regista Marco Ferreri (dico italiano perché aveva già all’attivo tre film in Spagna) è tra i lavori più censurati della sua carriera.

Oggi nel nostro paese non esiste più una Democrazia Cristiana che tenga il bandolo di una tradizione matrimoniale e di costume da difendere a colpi di forbice. L’Italia, nella realtà quasi come nel cinema, è libera di accoppiarsi, sfasciarsi, sbudellarsi di sesso, amore e odio, impaganirsi e scomunicarsi, separarsi e riammogliarsi senza che una censura imponga tagli su niente di tutto questo.

C’è ancora il Vaticano che rompe i coglioni ma siamo possibilitati a ignorarlo. E la ricostruzione dissacrante, nel film di Ferreri, di un ambiente salottiero ai margini di San Pietro, è un quadretto divertente ma figlio di un tempo ormai lontano. Ci sono ancora famiglie aggrappate alla sottana di zii vescovili e comari monache, ma non hanno più un poggiapiedi politico ufficiale su cui innalzarsi.

Oggi lo scenario de L’ape regina è estinto. Come le api, che pare non si vedano più in giro.

Mio padre mi narra di quando al suo tempo, sul finire degli anni 50, era costretto a passare le serate con il padre della ragazzetta con cui voleva uscire, a sentirlo rivangare episodi di guerra interminabili. E quella ragazzetta, solo per concedergli un bacio più lungo di tre secondi, lo faceva sudare peggio di un manovale a tirar via blocchetti. Non siamo più a quei livelli. La verginità prima del matrimonio è una moda hipster, ormai. E non lo dico mica con rimpianto. Meglio così. Peggio così. Chi lo sa?

Resta l’aspetto zoomorfo, entomologo di un accoppiamento e su quello, volendo, ancora si può discutere.

I tagli e le ire Andreottiane dopo la visione del director’s cut, costarono a L’ape regina numerosi tagli, un divieto ai minori di diciotto anni e il sovratitolo confusionario Una storia moderna, che snatura la vera essenza dell’intento di Ferreri/Parise/Azcona nel voler satireggiare non su qualcosa di nuovo ma atavico.

Una delle leggi più inaccettabili, incomprensibili della natura, quella dell’accoppiamento maschicida delle api, traslato alla vita umana è in fondo qualcosa di più profondo di una mera provocazione.
La vicenda di Alfonso (Ugo Tognazzi) uomo d’affari di successo, ormai quarantenne, il quale si sposa con una virginale e prosperosa giovanetta di nome Regina, non è solo una grottesca barzelletta pre-Cronemberg. Si tratta di una fine analisi delle dinamiche di coppia.

Per carità, Regina è imbevuta nella cultura dei santi, le reliquie casalinghe, i voti di castità; la sua santa preferita è Santa Lia, la quale per risparmiarsi uno stupro e salvar la propria purezza chiese alla Madonna un intervento e questa le fece crescere una lunga barba che uccise la lussuria nei suoi assalitori.

Se però togliessimo tutta ‘sta paccottiglia cattogena in stile anni 60, resterebbe comunque il fatto che c’è qualcosa di oscuro, profondamente macabro nell’accoppiamento matrimoniale. Come dice il frammento riportato all’inizio dal grande libro di Meaterlinck sulle api, una sottile membrana separa morte e amore e questo il maschio più della donna lo sente. Una volta che l’uomo decide di sistemarsi avviene una specie di flessione, una resa che però aggiunge in extremis, imprevedibili tentativi di fuga. Questi tentativi avvengono quando nel gorgo della quotidiana sessualità matrimoniale lui capta il solo possibile sbocco delle responsabilità paterne. Messo alle strette il maschio sovente sente dire: facciamo un figlio o lasciamoci. Costruiamo qualcosa. Costruiamo qualcuno. Lui prova a temporeggiare ma sa che non può resistere a lungo. E chissà perché una parte di al suo interno rifiuta, lotta, si ribella, pur sapendo che non ha speranza di uscirne vivo. La donna lo assedia, con una fame sessuale che lo asfissia. I suoi ormoni iniziano a chiedergli la grazia. Falla stare buona, dalle sto cazzo di figlio!

Nel film di Ferreri, l’innalzarsi dell’appetito sessuale di lei dopo il matrimonio, è un colpo di scena che smentisce l’andazzo casto e mesto di Regina durante il fidanzamento. La timida bigottella diventa un’insaziabile zoccolona a cui il marito non sa proprio come dare il resto. Qualcuno può desumerne il tale insegnamento: si fosse sfogata prima non avrebbe avuto tutta sta fame. Che balle, non è vero. Sarebbe stata lo stesso anche dopo. Cosa centra il divertirsi prima per star calmi una volta messa al chiodo nuziale la vagina? Chi ama il cazzo lo ama sempre.

Rispetto alla donna è l’uomo che vive male il suo perder terreno. Lui non può rifiutarsi di montare, di copulare una bella moglie. Deve rispondere sempre e comunque presente! Il preticello parente della sposa scomoda persino Sant’Alfonso di Liguori per dire al protagonista recalcitrante che il coniuge non può e non deve sottrarsi al desiderio legittimo, anzi santo, della di lui consorte. Santo, capite? E detto da uno che santo lo è divenuto davvero, beh, come fai a discuterne! E Sant’Alfonso l’ha scritto in ginocchio, per non essere indotto in tentazione.

Ogni uomo maritato sa di cosa parla Ferreri. Ogni marito capisce bene lo stato d’animo di Alfonso, costretto a nascondere in un cassetto dell’ufficio dei supplì e a fingere di non capire i richiami erotici di una moglie desiderosa. Da qui il bisogno di mettere un figlio in mezzo e chiudere per un po’ la furia d’alcova di lei.

Secondo alcune sintesi del film si parla di una fame di Regina volta alla riproduzione e forse inconsciamente lo è, ma secondo me lei vuole scopare, non lo fa per smanie materne. Anzi, è Alfonso, ormai stremato al punto di barricarsi al lavoro con la scusa della tributaria alle porte e poi dandosi alla fuga in un ritiro spirituale con altri mariti esauriti, che alla fine la placa con il seme.

In un guizzo di virilità guadagnato a colpi di zabaglioni benedetti e punture di estratti ormonali, il povero fuco sazia la maestà imperiosa. E dopo averla messa incinta, diventa sempre più palese al marito… che è Regina a liberarsi di lui. La donna infatti si allontana sempre più e l’uomo deperisce.

Da lì in giù è una inesorabile decadenza fisica e mentale per Alfonso, i cui segni mortiferi Ferreri anticipa un po’ ovunque lungo la pellicola, in modo in troppo da didascalia: Il santuario dei morti di famiglia, con la zia di Regina che gli mostra i precedenti fuchi caduti in battaglia; la mortalità maschile in famiglia è ribadita nella scena del cimitero. La mietitrice fa anche capolino in una statua dimessa dietro un giaciglio di foglie di pannocchia, dove Regina e Alfonso hanno il primo amplesso orale libero da vincoli del costume curiale di cui è portavoce la ragazza. E anche al ritiro spirituale il prete dall’accento anglo-americano parla a tutti quei mariti di preparazione alla morte.

E poi lasciamo perdere l’aria funebre e tetra dell’ambiente clericale, tra crocefissi e repressione… In fondo, pare dirci Ferreri, il vero e unico “signore dell’alveare” della coppia “moderna” è sempre e solo la Chiesa.