Il loro singer Shannon Hoon aveva fatto parlare di sé per diverse sciocchezze collegate alla droga, tra cui una revivalissima pisciata in faccia al proprio pubblico, in omaggio a Jim Morrison. Il problema era che se negli anni 60 il frontman dei Doors era visto come un dio rettiliano e venerato fino allo spurgo neuronale, Shannon dovette sorbirsi le conseguenze legali del suo gesto e gli insulti di chi lo stava a sentire. Il suo gruppo si era fatto notare con un singolo infallibile come No Rain e nessuno aveva collegato il fascinoso cantante hippie con il metallaro in camicia da boscaiolo che faceva vento intorno ad Axl Rose sul video di Don’t Cry.
No Rain, esatto. Vi ricordate la bambina vestita da apetta che pativa la sua cicciottezza mentre la band persa nei papaveri faceva lezione di crossover attitude agli italiani Ritmo Tribale e ai Karma? Ecco, a posteriori fu un vero disastro, dai. Quel brano tormentone era ottimo, ma metteva in secondo piano un gran bel disco in cui era evidente il rimando al rock anni 70, con i suoni, l’interpretazione transevole e un po’ messianica di Hoon, gli assoli avulsi dai tecnicismi guitaristici di fine anni 80 e persi in quattro scale con l’Alzheimer piene di sentimento bluuuus. Ma non era tutto lì. Come per i Black Crowes di Amorica la ricerca indietro nel tempo aveva condotto a una via da cui tornare cresciuti. Sentitevi I Wonder e ditemi se non c’è il passato, il presente e uno spicchio di futuro in quel pezzo.
La sfida dei Crowes e dei Melon era trovare la propria identità misurandosi con un contesto generazionale che rifiutavano, non riconoscendosi. Uno sfondo glorioso e onirico, conosciuto attraverso i sentito dire, vissuto dagli occhi e i cuori dei padri, dei fratelli maggiori, degli zii rimbambiti e dei documentari su Woodstock, messi in rassegna col film di Oliver Stone sui Doors, la letteratura lisergica della Beat Generation, oltre i versi di Bob Dylan e l’esoterismo viscido dei Led Zep.
I Blind Melon in particolare offrivano un nuovo piccolo Cristo alla generazione X ma c’era già stato il martire dei martiri: Kurt che aveva appeso la chitarra al chiodo e la bocca al cannone dicendo basta, essere re del rock è uno schifo! E così Hoon se ne andò quasi alla chetichella. Come un dio del distorsore nato morto e sepolto sotto una manciata di watt e canzoni belle, ispirate, intense ma di cui emerse un solo fottuto hit: quello che parla della bimba apetta.
Il secondo disco Soup ha un solo pregio: non possiede un singolo baciapile come No Rain. Il difetto è lo stesso, però: niente che eccella, che travalichi l’aria elegante e sofisticata con un bel coro da accendere allo stadio. Tutte le soup-songs sono troppo intelligenti, schiette e sdrucciolevoli per farlo diventare un manifesto post-coitale. È un lavoro un po’ torto in se stesso che suggerisce le potenzialità crescenti della band più dell’omonimo esordio, quello sì congelato nel mito tascabile di Hoon.
Soup pare quasi una roba postuma ed è per pochi.
Perdonatemi se ripenso ai Black Crowes… sono sopravvissuti alle droghe e hanno rimediato altre coriste più emancipate ma in fondo sono andati sempre più per i fatti loro. Il successo iniziale era stato da sempre in discesa e oggi, che siano vivi o sciolti, poco importa di loro al pubblico iper-settorializzato del rock and roll. Ogni volta che ascolto Amorica non capisco come abbiano potuto fallire la consacrazione con quel disco. Chi tra i vari Orchid o gli Sword saprebbe oggi scrivere una nuova A Conspiracy? Probabilmente nessuno, compresi i Black Crowes che ancora vanno in giro.