Gli scrittori sono persone orribili!

Cavallo goloso ha marcato visita e quindi ritocca a me occuparmi di questa rubrica. E sono cazzi. Vi ho già detto che fatico a scrivere del momento che sto passando. L’articolo della scorsa settimana è stato molto apprezzato e la cosa mi ha dato un po’ di piacere, lo ammetto; parlare del mio dolore è un conto, scriverne un altro. Essere ascoltato mi piace ma essere letto è sublime. 

E qui bisogna che mi interroghi sulla questione morale che attanaglia ogni scrittore. O almeno quelli che un senso morale ce l’hanno, da qualche parte.

Quando mi si presenta l’occasione di fare conoscenza con uno scrittore io penso due cose: la prima è “oh merda!”. La seconda è: “che scusa posso inventare per fuggir via?”

Non voglio apparire presuntuoso e asociale. Non più di quanto lo sia, almeno… però se io sono uno scrittore vero, allora non mi interessa incontrare uno come me. Gli scrittori sono pessimi esemplari di umanità.

Quando si incontrano due grandi scrittori, di solito reagiscono come Bukowski che non volle assolutamente farsi presentare William Burroughs il giorno che si trovò nello stesso albergo con lui. I due si guardarono un po’ da un balcone all’altro, senza neanche farsi un cenno di riconoscimento o manifestare un pizzico di curiosità. Cosa avrebbero potuto dirsi due mostri sacri della narrativa americana del ‘900? Niente. Alla larga, per favore.

Gli scrittori hanno una sorta di deformità interna che gli impedisce di comunicare in modo appagato, totale e quindi, per dire al mondo chi sono e cosa sentono, devono ripiegare su un altro sistema trasmettitore. Tra loro e il resto del mondo, quello fatto di non scrittori, c’è come una camera d’aria in mezzo, una parete di vetro. E lì dentro aleggia l’occhio dello scrittore, che registra, scruta, giudica, o non giudica ma assimila, accumula e poi un giorno: tac, infila tutto in un libro e sono dolori.

Un momento! Io dico giudica ma fate attenzione. Lo scrittore non giudica come chiunque, per il bene o il male di un’azione. Lui giudica solo se un tizio che ha davanti è buono per un libro o se non lo è. E comunque archivia, imbarca.

Gli scrittori sono parassiti sempre bisognosi di idee, di storie, di spunti. Il più delle volte usano ciò che gli altri lasciano cadere in terra senza riguardo. Si cibano delle cellule morte dell’esistenza degli altri. Asimov disse: “prendo storie dalle vite dei miei amici, tanto a loro non servono”. Ma glielo chiedi? “Il più delle volte sì, quando mi aspetto che rispondano affermativamente”.

Gli scrittori sono così messi male che quando un loro amico gli confessa di avere un tumore lo invidiano perché si dicono: che bel romanzo ne uscirebbe da una degenza prolungata. E non riflettono sul fatto che la degenza potrebbe essere estremamente prolungata. Meglio se muoio! Dopo sai quanti mi leggeranno?

Quando leggete romanzi su madri morte, lunghe malattie, amori finiti, non vi fidate dello scrittore. Non è la catarsi quella che l’ha spinto a mettere nero su bianco le proprie esperienze tragiche, non c’è nobiltà, non ci sono testicoli di cemento ma la ghiottoneria del proprio bisogno di avere qualcosa da scrivere. John Updick ha scritto tutti i suoi libri pensando al termine di ognuno “e ora che cazzo mi rimane da scrivere?”.

Questo è il solo terrore degli scrittori. Morire non conta un cazzo, è un incentivo alle vendite, quello. La paura è rimanere vivi e non avere più un cazzo da dire, da raccontare. Oppure, al secondo posto dei timori cosmici c’è di morire prima di aver raccontato tutto, come diceva Harlan Ellison. Siete d’accordo con me che ‘sta gente è messa male, è incasinata di brutto, no?

Al tempo degli scrittori della generazione perduta di Gertrude Stein iniziò il mantra che rovinò l’esistenza di Hemingway: scrivi di ciò che sai. Il vecchio Ernest a un certo punto sembrava che soffrisse di una totale mancanza di fantasia e che per inventarsi nuove storie, dovesse crearle sulla propria pelle, con la collaborazione del mondo intorno a lui. E quindi vai con le risse, gli amori tormentati, i viaggi rischiosi, gli incidenti fatali. In Donne, Bukowski sembrava scopare tutte quelle femmine e poi mollarle, al solo scopo di mandare avanti di un altro paio di pagine quel suo cazzo di libro.

Quando Ernest Hemingway si sparò in testa col fucile non era come Cobain, depresso, spento e arreso da un mondo che l’aveva deluso. No, lo scrittore era solo lì che metteva un altro punto all’ennesimo finale. Con gli scrittori americani della beat generation e dintorni,  gli autori si sono messi ad accumulare esperienze, viaggi, piccoli crimini, amori sfortunati, prima di avere la borsa abbastanza piena da potersi chiudere in un alberghetto da due soldi, con una bottiglia di pessimo Wiskey e iniziare a vuotare sul foglio tutta la loro vita, battendo sui tasti il nuovo Tropico del cancro. Quanti hanno scoperto lì che non erano le esperienze a fare romanzi ma la capacità di scavare in se stessi e mostrare le cose più vergognose e abiette. E per la mondezza, non c’era bisogno di alzare il culo dalla sedia e fare tutto quel movimento. La mondezza è in noi come arriviamo, ne abbiamo tutti una gran quantità in dotazione. Poi c’è chi la trasforma in Alla ricerca del tempo perduto e chi in Trainspotting. E sono entrambi esempi positivi. E c’è chi ne ha un terrore tale che preferisce lasciarla lì e darsi al fantasy! (con tutto il rispetto per quel genere e chi lo pratica, ovviamente)

Quando un uomo realizza di essere uno scrittore, uno vero, si rende anche conto che la propria vita è così noiosa che per scrivere di qualcosa deve far accadere qualcosa al più presto. Si domanda come sarebbe uccidere qualcuno, tradire, abbandonare ed essere abbandonato. A quattordici anni io rimpiangevo di non essere figlio di genitori morti, per dire. Sognavo un incidente tremendo che mi rendesse orfano. Sai quante belle idee mi sarebbero venute, sai quanto tutto il tal dolore avrebbe ispirato le mie storie? Io invidiai tremendamente l’omicidio a cui assistette James Ellroy, quello della madre, brutalizzata da un maniaco davanti a lui. Quanto ci hanno ricamato gli editori e i promoter su questa vicenda? L’hanno resa parte del tutto. E lui a un certo punto ci ha talmente sublimato sopra, sotto, intorno, che alla fine sembra quasi non volerne più nemmeno parlare, mentre prima era quasi il suo passaporto per l’inferno di cui raccontava: so di cosa parlo, so di cosa scrivo, sono stato un fuorilegge perché m’hanno ammazzato mamma mia!

L’autore più noir del nero è un povero bambino reso orfano da uno psicopatico dentro un ascensore. Fantastico! Lucarelli invece? Quale uomo nero guarda in faccia quando scrive i suoi thriller? Quello che gli occultava il barattolo di cioccolata?

Dostoevskij scoprì cosa voleva dire stare davanti a un plotone d’esecuzione. Stavano per sparargli e all’ultimo fermarono tutto per non so quali circostanze burocratiche. Che culo! Seppe cosa voleva dire vivere in Siberia. Sono sicuro che una parte di lui ci vide un lato positivo. Il personaggio scrittore di The Affair, nella seconda serie, quando finisce in galera per via di due donne, è allegro perché sente di misurarsi con un’umanità ricca di storie da raccontare. E lui ci avrebbe tirato fuori un romanzo meraviglioso. Sei in galera ma stai allegro, il Pulitzer non te lo leva nessuno!

Questa degenerazione difficilmente può capirla chi non soffre dell’ossessione di voler diventare uno scrittore. E ancora più raro è leggere una confessione tanto deplorevole come quella che vi sto sbattendo in faccia io.

Non mi è mai capitato di scoprirmi personaggio di un racconto scritto da qualcuno ma so che non è una cosa molto piacevole. Se l’autore è un bravo scrittore non lo è mai. Mi è capitato però di essere io a infilare gente nei miei racconti e nei miei romanzi e difficilmente i malcapitati reagiscono bene. Questo significa magari che sono un bravo scrittore ma la cosa in sé e per sé non solleva i miei “personaggi” dalla delusione e dal dolore.

E poi non conta la qualità, si tratta di una specie di furto, una violazione che non guarda in faccia nessuno, che sa di abuso, di profittazione meschina e vigliacca. Un amico che racconta la sua esperienza più fragile davanti a una bottiglia di birra, una notte di confidenze, dopo un anno se la trova spiattellata in un romanzo, riferita con tono freddo, staccato, quasi sardonico di chi non capisce ma usa, perché può piacere, funzionare, esprimere qualcosa di originale e intenso e non per rendere omaggio a un amico, per dargli dignità artistica. Una madre che ha fatto i suoi errori di madre finisce per essere smerdata in una saga epico-famigliare in otto volumi! Senza possibilità di replica. Questo si ritrovano davanti gli amici e i genitori degli scrittori.

Il vero scrittore lo è sempre. Potete scoparvelo, inveire contro di lui, umiliarlo e picchiarlo, lui non sembra ma prende sempre appunti. Anche quando sua madre sta morendo lui si segna tutto, registra, mette via.

Potrebbe essere il suo modo di elaborare un lutto, di difendersi dalle esperienze più dolorose della vita, porre uno schermo salvagente dinanzi al gorgo della disperazione, una specie di telecamera meccanica al posto del cuore, ma in fondo in fondo c’è un qualcosa di deviato in tutto questo. Lo sanno gli scrittori e lo sanno i poveri disgraziati che finiscono per ritrovarsi incastrati nelle pagine dei loro libri.

Gli scrittori non hanno idea di cosa possa provare una persona convertita a letteratura. Pensano ne sia lusingata, credono che siccome c’è un legame famigliare o di profonda amicizia, quella persona possa ben sacrificarsi e non rompere i coglioni mentre il figlio, l’amico, il marito, ascende alla gloria letteraria grazie a dei moncherini della loro intima vita usati senza ritegno per un cazzo di romanzo.

E io sono così. Non vi fidate mai di me. Io sembro tanto empatico, interessato, ma sono una iena, mi butto sulle vostre carcasse, me le spolpo per bene e un giorno ci faccio un cazzo di racconto. E sapete la cosa più orrenda qual è? Che per me un racconto che sappia di vero val bene qualsiasi cosa là fuori: un amore, un’amicizia, un contratto, un giuramento, un rapporto sessuale!

Pirandello disse che “la vita la si vive o la si scrive”. E io replico che scrivere la vita sia un modo piuttosto penoso di non viverla. Ma che se poi tu firmi Uno, nessuno e centomila, gli altri vivranno più a fondo la propria.

Se Tolstoj, Proust, London, avessero scritto i loro capolavori badando alla buona creanza, alla privacy, a non urtare l’umore e la sensibilità delle persone care vicine a loro, non avrebbero mai raggiunto certe vette di intensità narrativa, di verità. Pensate solo alla morte del fratello di Levin in Anna Karenina o in Ivan Illic dell’omonimo racconto. Pensate che Tolstoj avrebbe potuto raccontare la malattia e la morte di un mediocre con tanta veridicità se non avesse assistito alla disfatta incresciosa e asfissiante di un proprio famigliare?

E non crediate che tanti scrittori possano raccontarvi la morte, l’amore e la vita, senza rubare agli altri. Rimbaud, per dirne uno, morì giovanissimo e praticamente non ebbe una gran vita sentimentale. Eppure parla dell’amore con più sapienza di qualsiasi scrittore settantenne reduce da tormentate passioni e dolorose separazioni. Perché? Un grande scrittore non ha bisogno di conoscere a fondo ogni aspetto della vita, di consumare e consumarsi fin nelle più mefitiche segrete di un’esperienza per poterne parlare. Basta che assaggi l’odore di un crisantemo e scorga una donna in lacrime davanti a un feretro per captare il profondo sapore del lutto e della perdita.

E così anche gli scrittori che sembrano saperla lunga senza aver mai messo in mezzo nessuno, in realtà hanno rubato come gli altri ma gli è bastato così poco che i furti sono stati impercettibili. Ma ci sono stati.

Però io chi sono? Proust? Tolstoj? Non credo. E allora potrebbe darsi che ho usato la vita intima di mia moglie, le disgrazie di mia madre e l’aborto di una mia amica per una schifezza di romanzo mai uscito. E se è così, ecco la tragedia. Ho rubato e tradito per un misero pasticcio senza valore.

No, non mi frega niente di cosa possa provare chi si è sentito derubato e tradito. Il vero delitto che non mi perdonerò mai è che ho scritto un ennesimo romanzo di merda, uno dei milioni che ingolfano le latrine del mondo.

E la cosa tremenda per voi è che nonostante io vi abbia riempito di merda, la mia merda, sono sicuro che mi ammirerete per la sincerità e comprenderete a fondo la mia catarsi. Bravo, bene, sei coraggioso a dire queste cose! Ti ammiro, ti ammiro! Ma un paio di palle, gente! Mandatemi a cagare, per favore!

Vero, gli scrittori sono stagnini. Servono anche loro, altrimenti le strade sarebbero invase dalla merda. Loro prendono la merda e la trasformano in concime per le anime. Questo è bello e vale un certo rispetto, ma statene lontani, puzzano da farvi svenire e hanno poco rispetto per la razza umana. Del resto è difficile averne, quando sei costantemente a contatto con la sua merda.