Zakk Label Society – E Johnny prese il guitarone!

Qualche anno fa, al tempo di Shot To Hell, Zakk Wylde cedette alle pressioni della Roadrunner sul coinvolgimento di un produttore per il nuovo lavoro dei Black Label Society. Lui non aveva mai voluto che qualcuno gli dicesse come avrebbe dovuto suonare un disco del suo gruppo ma in quella circostanza si trovò costretto a far buon viso a cattivo gioco e contattò Michael Beinhorn (Ozzmosis, Superunknown) e gli chiese se non gli sarebbe interessato un lavoro facile facile. Doveva mettersi seduto nello studio di Zakk per qualche settimana a far le parole crociate e poi firmare la produzione finale del disco che lui stava realizzando. Una roba alla Rick Rubin, insomma. Mick accettò senza farselo ripetere e a parte strimpellare un po’ di tastiere quando a Zakk non bastavano le mani per fare anche quello, non combinò nulla e di certo non produsse alcuna opinione sulla resa dei pezzi di Shot To Hell. E si sente.

Questo aneddoto per dire che non c’è nessuno più testone di Zakk Wylde. Una cosa che è sempre mancata nei suoi dischi è proprio una visione soprelevata. I lavori della Black Label Society sono concepiti dal punto di vista del guitar-hero e del songwriter. Il basso, la batteria, le orchestrazioni non hanno respiro al di fuori dei polmoni creativi di Zakk Wylde.

La figura del produttore non è elitaria e contestabile. I più grandi dischi della storia del rock ne avevano uno di talento, geniale, che ha saputo lasciare un marchio di riconoscimento trascendendo gli artisti più disparati. Lou Reed e Alice Cooper con Bob Ezrin, per esempio. Bob Rock con i Metallica, i Motley Crue e i Bon Jovi.

Zakk Wylde avrebbe avuto bisogno di qualcuno che gli mostrasse il suo vero potenziale. Si è sempre sbriciolato in una retorica american pie & southern trendkill da far venire il latte alle ginocchia. Le interviste, tolte le solite sparate contro qualche collega più celebre di lui, sono sempre state all’insegna del manzo da rodeo, del bisteccone dal cuore d’oro, intenzionato a non far pesare al mondo il suo quintale di muscoli, di scale, di talento e apparato genitale. In realtà la melassa da rocker genuino che passa indenne tra le maglie corruttive dello showbiz è una favoletta che poteva andar bene per qualche quindicenne. Zakk Wylde ha giocato tutte le volte al ribasso, come un pugilista che sale sul ring fingendosi goffo e ubriaco per poi sganciare il colpo letale di un felino quando nessuno se l’aspetta. La tattica da Balboa avrebbe potuto anche funzionare se prima di cominciare questa pantomima non avesse realizzato tre dischetti della madonna come No More Tears, Pride & Glory e Book Of Shadows. Lì è incontestabile che Zakk Wylde è un artista di grande personalità e dal potenziale inimmaginabile. Lo vedevi sul palco assieme a Ozzy in una versione Odinica di Randy Rhoads. Lo vedevi reincarnato in una versione anabolizzata di Mark Farmer fuso da qualche stregone genetico del voodoo con Gregg Allman. Lo vedevi in tenuta dark roots, capello fonato e sguardo alternative-mode, sulla copertina di un disco di ballad e ti dicevi: lui può.

Ma chi era e quante altre cose poteva essere Zakk Wylde? Tutto, persino il nuovo chitarrista dei Guns. E Axl lo chiamò a corte, infatti. E lui ci rimase quanto di norma si sopravvive nella reggia di un paranoide e dispotico sovrano assediato da squadre di vermilingui. Giusto il tempo di scrivere qualche brano.

Una volta fuori dalla corte del Barone Rose, quei pezzi per i Guns N Roses, lui decise di usarli comunque per se stesso e dopo le precedenti incarnazioni da turnista e da solita, ecco che Zakk Wylde volle farsi gruppo. Nacquero i Black Label Society. Mai stati una band, sia chiaro, sempre  e solo un progetto. Ma un progetto che a testa bassa e a colpi di album guadagnò le classifiche del riconoscimento generale, fin quasi alla zona Champions del metal, dove però rimase poco.

La cosa buffa dei Black Label Society è che non c’è un titolo che metta tutti d’accordo. Su Wikipedia si cita The Blessed Hellride come apice qualitativo. Secondo molti è un disco irrisolto, tra cui io, e in realtà il vero botto è Mafia. Più di un botto… un’implosione. Meglio 1919 Eternal, se solo avesse avuto un produttore e i soldi necessari. I pezzi c’erano. O forse no.

Questa indecisione così diffusa è per una ragione semplice. Infatti, ogni disco dei Black Label Society avrebbe potuto essere un gran lavoro di hard rock, di southern metal o addirittura di cantautorato siderurgico ma Zakk ha sempre voluto fare tutto da solo, clonandosi fin dove gli permetteva la tecnologia, coinvolgendo letteralmente chi c’era e se c’era. Il gran fai da te e la bonarietà delle collaborazioni, la sciatteria dei suoni e l’artigianato a grana grossa degli arrangiamenti sembra quasi una provocazione ma non lo è. Negli anni Zakk è migliorato in tante cose: paroliere, pianista, interprete, chitarrista e persino come produttore dei propri dischi. Però poi ha anche avuto il tempo di regredire e incartarsi su se stesso. Order Of The Black ha mostrato una sorta di luce al termine del tunnel, una specie di prodigiosa quadra che Catacombs Of The Black Vatican ha rimesso subito in discussione. E il nuovo Grimmest Hits?
A vederlo così, di primo acchito sembra quasi una raccolta tappabuchi, di quelle che servono a sbrogliar via vecchi contratti discografici. Invece è il nuovo lavoro dei Black Label Society. Copertina di merda, estetica da braciola, ma il succo non è malvagio.

Come per tutte le altre cose di Zakk Wylde c’è lui nel mezzo come un ciocco inamovibile e intorno una serie di differenze stagionali su rami, fiori e altri agghindamenti della natura. Rispetto ai dischi passati si fa il consueto gioco del “trova le differenze”. Qui abbiamo assoli più strutturati e minimali, con note lunghe, bending, ellissi emotive, mentre le scale parossistiche buttate lì un po’ alla come viene, sembrano ridotte al minimo. Le svise appaiono come degli impercettibili sommovimenti a cui non si da il tempo di esplodere completamente. Wylde sembra voglia dar prova di una forza trattenuta a stento. I pezzi sono più rivolti agli anni 70, al classic rock tra Zep e Neil Young, con la consueta Black Sbobba e tutta la comitiva di sempre: Lynyrd Skynyrd, Allman Bros, Grandfunk. In effetti potrebbe essere quasi un ritorno dei Pride & Glory. Le ballate sono con la chitarra e non il piano e la parte romanticona non è proprio da bagnar la fica. Si sente che c’è più mascolinità, più voglia di suonare rock maturo e omaggiare i padri che commuovere le signore. I lenti sono giusto tre e hanno un andatura un po’ sorniona, ma sobria. Del resto, il Book Of Shadow II ha permesso a Wylde di sfogare fino in fondo la sua vescica sentimentale e adesso c’è solo la potenza e il blues.

Grimmest Hits potrebbe anche essere l’inizio di una svolta più consapevole. Del resto Wylde ha smesso di bere, una buona volta. È dimagrito e ha riscoperto JESUS. In un certo senso il sound del suo progetto ne ha risentito in modo positivo. La magniloquenza e la smargiasseria dei lavori degli ultimi anni sembra un ricordo. I pezzi parlano di trovare se stessi, vincere le paure e sentirsi liberi.

Seccante che Zakk Wylde abbia deciso di trasformarsi in una specie di babbo natale dei vichinghi, di buon diavolo che crede ai vecchi valori del suo paese. Nel tempo ha finito per ridursi a un gigione e lasciar solo intravedere a sprazzi quella mitologia degli esordi. I Black Label Society sono figli di pro-tools e del revivalismo. Sono il vorrei ma non posso dei moderni standard produttivi di un mercato discografico sull’orlo dell’estinzione. Sono la mancanza di ideali di un genere che ormai ha trovato nello sbrago e nella decadenza una specie di utopia romantica nerdissima. In Grimmest Hits se non altro smette di ruttare e di fare le pose da australopiteco. Forse è un nuovo percorso verso la vecchiaia di quello che minacciava di restare un adolescente super-proteinico nel corpo di un cinquantenne imbolsito.

Zakk Wylde avrebbe potuto essere qualsiasi cosa e ha scelto di essere solo Zakk Wylde.