Devo farvi una confessione, l’ennesima. Ho trascorso gli ultimi giorni a massacrarmi la testa e il cuore con un dubbio che da tempo non avevo più. Frequentare o meno l’ambiente letterario italiano… C’è chi si danna i nervi a pensare se fare mutui, chi si interroga se lasciare il lavoro, chi la propria donna e io invece se comprare o no dei giornali. C’è chi mi dice di sì, perché sono un romanziere e in quanto tale devo tenermi informato, tessere la mia rete di relazioni eccetera…Circa quattro anni fa io mi sono liberato di una dipendenza da giornali che non vi dico. Uscivo dall’edicola sempre con qualcosa sotto al braccio. Ogni quotidiano aveva almeno un paio di firme che seguivo ed erano tutti critici, scrittori, pensatori che stimavo. Mi annoiavano a morte, non ammiravo le cose che scrivevano ma la loro capacità di esistere nel giro letterario, di essere rispettati, temuti e pubblicati mi ammaliava, neanche fossi una puttanella al primo esame universitario al cospetto dei professoroni. Non me lo dicevo in questi termini, fingevo che mi piacessero proprio gli articoli di certi scrittori, filosofi, intellettuali, critici, ma in verità erano solo un pelìno meno noiosi di altri. Pensavo di annoiarmi perché ero troppo ignorante, stupido, debole come lettore ma in realtà era che non mi interessavano e per una ragione plausibilissima: mi erano utili quanto una masnada di ferramenta che mi spiegano come si usa il trapano mentre lo stanno usando loro.
Inutili perché io volevo scrivere romanzi e avrei imparato molto di più leggendo le lettere private di Tolstoj o i diari di Stendhal e soprattutto i loro capolavori, piuttosto che le recensioni di questi signori su Tolstoj e Stendhal. Costoro poi raramente si occupavano dei veri grandi, in genere giudicavano i viventi e di solito sbrogliavano un libro alla settimana recensendo testi non tanto per l’interesse o la qualità potenziale ma la brevità. Del resto erano tutti troppo occupato a scrivere libri di critica, insegnare, scopare in giro lettrici da menopausa letteraria e studentesse arriviste e non potevano persino leggere i libri che recensivano per due soldi malpagati. Per fortuna erano talmente avvezzi che non necessitavano di andare fino in fondo all’ultima pagina per stroncare o lodare un libro. E se ne facevano un vanto della loro pessima condotta morale! I lettori compravano a scatola chiusa le smargiassate di questi intellettuali con poco tempo, poca voglia e molta presunzione, convinti, i lettori, di godersi il meglio spendendo per il meglio, ma stavano subendo una truffa; una truffa che meritavano.
Ma ecco che oggi io mi sono ritrovato a pensare di aver sbagliato tutto. Mi sono sentito quasi in colpa per non aver seguitato a mantenere in piedi in tutta una serie di staffe, di rapporti che avrebbero forse permesso al mio libro di uscire sotto una più propizia coltre di interessato interesse.
Mi sono sentito come un genitore che si pente di non aver seguitato a leccare il culo alle persone giuste e ora che ha un figlio da sistemare, non sa come e dove aiutarlo a trovare un lavoro. Ma qui parliamo di libri, non di figli. I figli, per chi li ha è palese, sono un’altra cosa. Anzi, non sono proprio una cosa, sono esseri umani. Puntualizziamolo che fa sempre bene.
Mentre i libri ormai sono più una cosa da idealisti. Scriverne, intendo. Pubblicarne, anche. Dostoevskij li scriveva per vivere. Veniva pagato un tanto a morte. Oggi chi scrive lo fa per la gloria. Campa di altro.
Io comunque non riuscivo a darmi pace. Sentivo dentro di me che era sbagliato ripensarci su, anche solo per esercizio mentale, ma il pensiero di tornare indietro, a comprare nuovamente i giornali, le riviste, chiedere amicizie su facebook, iscrivermi a certi nuovi gruppi, mettere mi piace a certe nuove pagine, commentare sul forum di Di Stefano o ai post della Lipperini, noooo, non potevo, cazzo! Ma sentivo dentro che era forse uno sprofondo umiliante ma che mi attraeva da morire…
Mi dicevo, non proverai quel senso di inferiorità, ora sei grande, quella smania avvilente di voler far parte di un ambiente che non ti vuole, la perenne sensazione di non saperne mai abbastanza di ciò che sta accadendo, di ciò che tutti stanno discutendo attorno a un libro, a un fatto politico, a una riflessione di qualche opinionista illuminato. Ora hai pubblicato dei libri, sai il fatto tuo, sei bravo a tenzonare di letteratura e arte, no? Nel mentre hai letto quel cazzo di Ulisse di Joyce, tutta la Recherche, Anna Karenina, La certosa di Parma…
No. Già mi sentivo tremare le gambe come fuori dalla porta di un’aula universitaria, il giorno dell’esame. Ma perché?
Non c’è motivo di capirlo. Un coniglio non si domanda come mai prova disagio in un certo ambiente, forse sono le volpi nei paraggi, magari c’è un uomo che si muove dietro quei cespugli, no… il coniglio scappa. E facendo così vive e sopravvive dignitosamente. E non c’è nulla di male a essere conigli. Anche loro sanno essere eroici, in un certo senso.
Ho imparato due trucchi fondamentali negli ultimi anni e voglio rendervene partecipi. Primo: se una persona mi suscita un senso di disagio, di inferiorità, dubbi, angoscia mentre mi parla di cose apparentemente interessanti e inoffensive, non devo farmi domande, c’è qualcosa di nocivo per me in lui, quindi devo lasciar perdere quella persona ed evitarla il resto della mia vita. Seconda cosa: ad azione spregevole coincide un intento spregevole. Se faccio una cosa che non mi piace fare, mi devo chiedere cosa mi sta motivando. Se è un bisogno di conferme, di soddisfare istinti viscerali, allora smetto subito di farla. Smetto e cerco di essere il miglior uomo che io possa essere. Poniamoci obbiettivi elevatissimi e perseguiamoli. Siamo uomini grandi, cazzo! E siamo conigli. Anzi, siamo la fusione dell’uomo e del coniglio: siamo cavalli!
Ho avuto la mia ricaduta, comunque. Con giornali e riviste, dico. Domenica sono uscito e ho acquistato nell’ordine: Internazionale, La Lettura, Il Domenicale e persino Rolling Stone. In copertina c’era Ed Sheeran ma questo non mi ha fermato.
Sono tornato a casa e ho posato tutto sul letto, sentendomi sporco, confuso, come un consumatore di sesso a pagamento dopo una scopata con una prostituta che neanche gli piaceva e pure concessasi in un periodo di problemi economici.
Era finita l’euforia. La parte divertente era l’acquisto. Ora avrei dovuto leggere quella roba. Ma più che leggerla, avrei sfogliato e sbirciato, lo sapevo già.
Nel giro di mezzora era tutto nel cestino. Anche la mia dignità. Ho provato a leggere alcune delle firme che una volta stimavo e di cui divoravo ogni riga come se fossero portatori di chissà quali verità. Alfonso Belardinelli, Raffaele Manica, Alessandro Piperno. Ehi, c’è uno specialone su Montaigne! Mai letto, Montaigne… e qualcosa mi dice che dovrei proprio farlo. Non ce l’ho fatta ad arrivare al fondo di un solo paragrafo dedicato a Montaigne. Non me ne fregava nulla.
E allora mi sono fatto la domanda che anni fa non avrei mai avuto il coraggio di rivolgermi. Perché leggere ‘sta roba? Interessa più a chi la scrive che a me che la leggo. Queste persone prendono soldi per scrivere i loro ariticoli. O hanno un tornaconto vedendo comparire la loro firma su un quotidiano a distribuzione nazionale. Hanno un ritorno, solitamente, per recensire un determinato libro. E io sono qui che li leggo convinto che sia una cosa che finisce nelle mie tasche spirituali! Fateci caso: non c’è articolo culturale che non sia collegato a un acquisto. Un libro, un film, una visita al museo… tutto è occasione per spendere soldi. Comprate Tuttolibri convinti di aggiornarvi sul mondo letterario e finite per ritrovarvi un pacco di Amazon prima ancora del successivo fine settimana. Dentro ci avete fatto mettere tre o quattro titoli che non leggerete mai. Ci fosse un pezzo che qualche brillante critico abbia scritto alzandosi una mattina, scollegato dall’attualità, dal nostro portafogli ma solo per farci pensare, per aiutarci a esistere meglio!
Nulla. Non c’è dibattito. Ogni tanto succede qualcosa che sembra averne l’aspetto ma è tipo la lotta nel fango tra prostitute, rispetto a un sano e robusto rapporto sessuale tra amanti. L’onestà intellettuale di questi signori è inesistente. Prendete la storia di Franchini, l’editor guru, ormai divenuto il Don Corleone dell’editoria italiana. Ha bloccato l’uscita di un libro di un critico facendo una cappellata che anni fa non avrebbe mai apprezzato in un altro, la tipica puttanata di chi ormai non ha più nessuno al fianco che si senta libero di dirgli: stai facendo una puttanata, deficiente! E tutto il piccolo mondo letterario è stato zitto. Solidarietà sdanghera al signor Marchesini, nonostante il suo bisogno di stroncare chi si stronca già da solo e vergogna per i signori critici al soldo della Bompiani e della Nave di Teseo, che hanno taciuto per opportunismo senza prender le difese di un loro fratello coniglio nelle grinfie della grande volpe panciuta.
Queste cose è bello dirle: sono vere. La libertà è questa. Poter sparare sul campo di battaglia di qualcun altro. Io ogni tanto sparo pure nel mio, ma non mi ritengo il difensore della libertà di pensiero di nessuno. Sono opportunista come tutti, ma nell’ambiente editoriale non sono nulla, vendo le mie copie porta a porta, conosco i miei lettori per nome. Tutto questo mi permette il lutto di dire cosa penso. Meraviglioso, ci si sente alla grande. Immaginate quante contorsioni mentali devono aver fatto i critici e gli scrittori che pubblicano per Bompiani nel tentativo di giustificare la propria mancanza di palle!
La cultura è solo un altro reparto del gigantesco supermercato. E non si può pretendere che gli impiegati che si aggirano tra gli scaffali attacchino il capo-negozio.
Non sono nato ieri, il mondo è così. Non giudico seriamente queste persone. Del resto la cosa più grave non è evitare di sfidare chi riempie la mangiatoia ma arrendersi e non provare più nemmeno a partorire qualche idea, a stimolare un confronto…
Del resto non parlo per me, lo dico per i lettori volenterosi e intellettualmente fertili, se ce ne sono ancora, concimati da qualche parte. Per mio conto, anche se ora Alfonso Belardinelli o Massimo Onofri si svegliassero una mattina e parlassero di critica letteraria, senza appellarsi a un libro in uscita, assolutamente da acquistare per capire cosa hanno scritto loro su quel libro, la realtà è che non me ne fregherebbe nulla. Io non ho grande interesse per la teoria. Non è mai fregato niente di un articolo di critica letteraria. Due palle!
E mi sentivo spregevole, per questo. Ma come, sei uno scrittore e non ti importa di sapere cosa pensano i critici della letteratura? No. Ed è proprio perché sono uno scrittore. La risposta mi è venuta stamattina, mentre col furgone cercavo di non andare fuori strada sull’ennesima curva lastricata di ghiaccio. Io sono uno scrittore. O meglio, sono uno che scrive e mi interessa questo. Il mio cervello è affamato di cose che riguardano la letteratura, i libri, gli scrittori, ma non dal punto di vista di un critico. Parlo di un critico che scrive un saggio di critica letteraria e non di uno scrittore che fa recensioni. Io voglio capire la tecnica, i sentimenti che tengono in vita i personaggi. Al massimo posso appassionarmi alle motivazioni che ci sono dietro a un uomo che si sbatte tutto il giorno per scrivere libri che vendono venti copie e che nessuno ha gli strumenti per capire, questo sì.
Mi interessa da morire leggere di come gli scrittori abbiano superato i loro problemi da scrittori, perché sono gli stessi problemi che ho io: il tempo, la stanchezza, i rifiuti, cosa leggere, vincere e alimentare senza perderlo mai il dubbio di non essere capaci. E le relazioni politiche tra scrittori, editori, editor…
I più grandi scrittori non sono mai stati bravi politici. Goethe lo fu, ma è un’eccezione. Shakespeare, Kafka, Stendhal… loro non erano proprio i tipi da intrallazzarsi per ricevere premi e finire a fare i presidenti di qualche importante premio letterario. Non dico che i pessimi scrittori siano grandi uomini politici ma che spesso muoversi bene e far circolare il proprio nome permette la pubblicazione e la distribuzione efficiente di molti libri, che magari sono anche venduti e premiati, ma che non è detto siano i capolavori che vogliono farci credere e che dobbiamo assolutamente acquistare e leggere se desideriamo smentire la cosa. Io non ho bisogno di leggere Moresco per capire che non è il grande romanziere che si dice che sia. Non mi serve leggere un solo rigo di Scarpa per esser certo che non lo amo e non mi serve nemmeno sbirciare cosa scrive Scurati per rendermi conto che non mi serve a un tubo per migliorarmi la vita.
E sapete come faccio? Non lo so. Sono uno scrittore, certe cose le intendo prima, mi bastano pochi elementi. Difficilmente sbaglio. Per esempio ho impiegato solo dieci anni per capire che io e mia moglie non eravamo fatti per il matrimonio. E ho impiegato 34 anni per indovinare che un mio vecchio professore dalle cui labbrine secche pendevo per ogni mia svolta esistenziale importante, in realtà era solo un altro pazzo. Ma di solito ho intuito e schivo i vicoli ciechi, gli abbagli e le tagliole. Ecco come mai sono ancora qui che sgambetto, allegro come un puledrone baciato di rugiada.
Mi domando come lo trovino il tempo questi intraprendenti autori a curar così bene il proprio personaggio, in contesti intricati e venefici di politica editoriale. Di solito a chi riesce bene non ha nemmeno bisogno di scrivere granché. Si tratta di un’abilità che emerge in chi si sa vendere se stesso, per colmare la deficienza di non aver nulla di serio da scrivere. Spesso non basta una vita per tirar fuori un titolo che sappia sfidare almeno un paio di secoli di eternità. C’è chi ne ha scritti cinque in dieci anni, nonostante i vizi, le difficoltà economiche e la calvizie incipiente ma oggi non mi pare di vederne in giro. Questi signori scrittori invece ogni anno si ritrovano su un podio o magari nel paginone culturale del Corriere.
Io sono uno scrittore. E uno scrittore scrive e impara presto l’importanza dell’economia. Il tempo, le energie, i soldi, tutto serve per una cosa sola: creare, scrivere, realizzare capolavori. Di conseguenza bisogna scegliere cosa leggere, a chi dedicare il nostro tempo e cosa fare.
Ho 40 anni, sapete? Me ne restano altri 40 a essere generosi. Devo scegliere se iniziare a leggere Montaigne o gli articoli di Piperno su di lui. Devo scegliere se trascorrere il mio tempo a leggere e rileggere l’intera opera di Tolstoj o trastullarmi con Antonio Scurati.
Potrei leggerli entrambi, certo, ma non è giusto leggere tanto, secondo me. Leggere tanto è come mangiare tanto. Ci si ingrassa di idee, di stimoli, di informazioni e si finisce per fare indigestione. A volte quando leggo tutto il giorno vado a dormire con un gran mal di testa. E’ l’equivalente di una gran mangiata natalizia. Cerco di leggere meno e meglio, da un po’ di tempo. Leggo e faccio decantare, faccio respirare il cervello e il cuore. I grandi libri vanno letti, riletti ma anche compulsati.
Gli scrittori di oggi mi sembrano quasi tutti cibo predigerito. Dopo averli letti il mio cervello scorreggia, non pensa. Come con le tagliatelle della Bofrost. Se invece mi curo l’anima con Proust o Flaubert sento che sto meglio. Le loro voci mi nutrono, il respiro della loro scrittura mi sospinge in alto, sopra i premi Strega, i Lagioia che fa Pasolini for dummies, sopra Don Rodrigo Franchini che questo saggio non sa da fare e sopra Massimiliano Parente che a forza di spernacchiare colleghi ed editori è finito, mito assoluto, a pubblicare per Mondadori e Bompiani e campar delle sue stronzate leccando poco ma leccando giusto. Io devo ergermi sopra i ludibriosi accademici e quelli che hanno passato la vita a farsi un nome nella critica seria scoprendo tardi la propria natura di cubiste. Sopra sopra sopra un mondo che vuole trascinarmi sempre in basso, nella brama di conferme e di bassi appetiti. Sopra, assieme a Madame Bovary, quella puttana, assieme a Marcel e quei cazzo di biscottini, assieme a quel malnato di Cicikov e l’anime de li mortacci sua. Assieme ai veri grandi. Pensando in grande. Dandomi al mondo in tutta la mia presunzione, la mia fame, la mia arroganza e la mia visionarietà, l’orgoglio, la vanità. Fermatemi voi, signori critici. Sarò forse il nuovo Céline o magari un Fabio Volo che rasente, ad ali spiegate, carezza la tenebra in cui è impantanato questo formicaio culturale che nella mente della gente al più sa generar formicolii irrilevanti. Non sarò mai un Pablo di Pablo ma cosa mi importa se la morte mi leggerà e mi amerà ? E cosa mi importa se non è vero. Ora sì, comincio a capire chi ha fede. Cosa mi importa se Dio poi non esiste. Avere fede non serve a questo. Aver fede serve a tendere il proprio spirito fino allo spasimo, come un ponticello ridicolo ma fiero tra le ovaie e l’oscurità di una notte infinita. Magnifica notte madre Eternia.
Qui chiuderei con la sigla dei Masters Of The Universe.