All’inizio degli anni 90 si reagiva con freddezza davanti al solito vecchio riff o al coro anthemico (si diceva così) che usava parole come fire, steel, wind e rising. Gli Iron Maiden di Fear Of The Dark facevano ormai “sempre la solita roba” e i recensori accoglievano Be Quick Or Be Dead nel migliore dei casi come il consueto uno-due. E non parliamo di Triumph Of Steel dei Manowar.
Nel 1996, gli Helloween di Time Of The Oath guadagnarono parecchi elogi dopo anni di stroncature semplicemente restituendo alla gente il solito power con un po’ di saturazione in più; il brano Steel Tormentor fu accolta con filosofia. Ricordo un recensore che scrisse così: “è l’ennesima Eagle Fly Free. Wekath la riscriverà sempre, in ogni album della sua band, mettiamoci il cuore in pace”. Due anni dopo, in piena esplosione power metal, Virgin Steele, Blind Guardian, Gamma Ray, Edguy, Primal Fear, Grave Digger, Rage, Iced Earth, farcivano i nuovi dischi di riff al limite del plagio con quelli dei mostri del passato. I Gamma Ray di Power Plant piazzarono Heavy Metal Universe e tutti a gongolare col sorriso sul labbrone. Sembrava uno scherzo giusto per omaggiare (e un po’ sfottere) i Manowar ma anche qualcosa di più profondo e sentito: Heavy Metal Universe era una sfacciata rivendicazione di appartenenza a un tempo di fanatismi di certo pacchiani ma gioiosi, dopo anni di imbarazzanti occultazioni. Ormai si era in una nuova epoca e quel ripescaggio non significava più raschiare il fondo del cestone della differenziata, quello con su scritto METAL. Il quattro quarti era la rivendicazione odi una militanza. Iniziò a girare l’esclamazione: “l’hanno inventata anche loro sta roba, è giusto che la usino quando e come vogliono!” Non faceva più gran differenza che il soggetto della frase fossero gli Anvil o gli Steel Metal di Varese (in forza dal 1982 e ancora fieri all’attacco) erano tutti autorizzati a saccheggiare le dimesse acciaierie del 1981-1988. E si era nel ’98.
E dal 1998 saltiamo al 2018 ed eccoci qui a parlare del nuovo lavoro dei Judas Priest. Mettere vicino l’aggettivo “nuovo” e “disco dei Priest” sembra un ossimoro ma la definizione è solo cronologica. E uguale, adesso come nel 1991, di metal classico, dopo vent’anni di sbornie truiste, si inizia a provare un po’ di insofferenza. Al punto che questo Firepower è snobbato da molti ingenui.
Dico ingenui perché davvero non riesco a capire come si possa essere delusi di fronte a un lavoro così. Si tratta del migliore dei mondi possibili. Redeemer Of Souls era un disco così mal prodotto che ci sarebbero voluti quattrocento hipster per rivoltare la frittata e farcela ingoiare. Era una pessima frittata con peli pubici e pezzi di tuorlo sporchi di merda lasciati dentro. Della serie: tanto sappiamo che non la pagate, quindi ecco ciò che avrete.
Non sto dicendo che il nuovo Firepower sia superiore a Redeemer in termini di contenuti. Da quel punto di vista, se avessero continuato così, oggi avremmo un altro lavoro orrido e imbarazzante. Questi nuovi pezzi, per quanto ben scritti e d’impatto non avrebbero fatto miracoli. No, la cosa nuova è che qui c’è una produzione che è uno schiaffone dietro alle orecchie. E con produzione non intendo solo il suono ma l’arrangiamento, l’editing, la spinta, il training che elementi esterni d’esperienza e autorevolezza, hanno potuto applicare a suon di calci motivazionali nel sedere della vecchia tigre.
Parlo di Andy Sneap, già eccezionale con gli Accept; e Tom “Colonel” Allom, già producer storico della band dal 1980 a Ram It Down. Sono loro i responsabili di questa rinascita. Mike Exeter è stato coinvolto solo in qualità di ingegnere del suono e in passato ha fatto grandi cose con gli Heaven & Hell, ma è il solo corpo estraneo che abbia messo mano anche a Redeemer e non so più cosa pensare di lui.
Il lavoro di Sneap è riconoscibile. Lui sa rigenerare senza snaturare. Lui fa un lavoro di restauro autentico. Tom Allom invece credo sia il responsabile dell’afflusso costante di odori e sapori dal passato, che ci giungono alle gradevoli alle narici da una cucina materna. Nell’arco dei quattordici brani si balzella nei vari anfratti dell’evoluzione sonora della band senza mai plagiare direttamente qualcosa di preciso. C’è di tutto un po’ quello che c’è stato dal 1980 al 1991. Ci sono frammenti di Turbo, richiami a Defenders Of The Faith e British Steel mentre del dannato Painkiller si guarda più a Hell Patrol e Touch Of Evil che la title-track. E meno male. Quel brano è stato la rovina per la band; una prova di virilità che nei successivi vent’anni i Priest sono stati incessantemente costretti a ripetere o addirittura oltrepassare proprio mentre tutto calava: dai testicoli alle tonsille, verso la nuda terra a cui tutti gli dei, anche quelli di metallo sono destinati a sprofondare, prima o poi.
Con Glenn Tipton ormai fuorigioco per via del Parkinson, Scott Trevis a fare lo spaccapietre, l’unico a cui si chiede di reggere in piedi la baracca e non venir meno alle responsabilità è Rob Halford e vi assicuro che ce la fa alla grande. Probabilmente non cantava così bene dai tempi di Resurrection e questo grazie alla scelta di non usare più i falsetti del cazzo, se non come spettri di contorno, effettati, riverberati, centrifugati e messi lì dove proprio non potevano mancare. Meglio insistere su tonalità medie una buona volta e riscoprire che Rob canta da paura anche nelle zone “umane”. Anzi, lui vi apparecchia una seconda giovinezza, vi ci riempie una grossa ciotola e vi dice: ora leccate fino all’ultima goccia!
Ok, non ci sono grandi canzoni e nessuno le vuole (per quanto Flame Thrower sia da paura, non smetto di suonarla) ma di fronte alla scaletta di Firepower non si sa bene come reagire. Questi scorreggiano storia, sbadigliano sottogeneri interi: come si muovono è un mondo di metal.
Si chiede alle tantissime band in giro di non somigliare troppo ai Priest e ai Priest cosa vogliamo domandare?