Loudness – Rise To Glory: piangere con Sebastian Bach le miserie famigliari mentre Takasaki ce le suona!

Io consegno carne nei supermercati e nelle macellerie con un furgone. Se becco quello con lo stereo e l’ingresso per la USB sono felice perché mi posso sparare a tutto volume qualche album metal durante le mie traversate tra Lazio e Umbria. E ieri mi sono ascoltato il nuovo dei Loudness tutto il tempo. Si intitola… aspettate che controllo: Rise To Glory. Fa pensare ai Running Wild, no? In effetti i Loudness hanno sempre mantenuto una certa epicità, anche nei lavori più class metal come Soldier Of Fortune, dove le tematiche erano la versione a mandorla di Don Dokken che sognava di essere David Coverdale ma solo per avere più soldi per la coca. Va beh…Lo stereo del Dacia Dokker non è che sia messo bene. Da un po’ le ruote poi fanno un rumore strano e lo sportello laterale non si chiude più del tutto. Il risultato è un woooooooom costante, che unito al bbbbbrrrrrr del frigo rendono l’ascolto della musica una cosa più “de tigna” che altro. Alzando al massimo il volume però sono riuscito a sentire i Loudness. Rispetto al precedente The Sun Will Rise Again qui l’abbraccio con il passato anni 80 è totale, senza remore o tentennamenti modernisti del cappero. A parte questo però i pezzi mi sono sembrati prolissi e con una produzione troppo cruda. Se fai un lavoro che pare uscito nel 1988 e lo suoni come se fosse un disco prog anni 90 non è detto che venga una ficata.

Che poi di roba prog i Loudness ne hanno messa qui e là pure ai bei tempi e  in questo album, sia con l’attacco della title-track che nella strumentale Kama Sutra sembrano omaggiare i primi Rush.

Ho finito il giro delle consegne ed mi sono sentito di umore sempre più tetro e fisicamente stanco. Non so quanto possa aver pesato l’album dei Loudness. A quel punto l’ho giudicato deludente e quasi di certo ero per non dargli una nuova possibilità, né al disco né a loro.

Ho atteso il treno in stazione facendo riposare le orecchie e ho iniziato a leggere l’autobiografia di Sebastian Bach, senza aspettarmi alcun giovamento spirituale. Quando è arrivato il momento di saltare su un vagone ero a pagina 20, piuttosto divertito dal tono e il ritmo, le battute e le curiosità che il cantante elargisce da subito, nel suo libro, a piene mani.

Mi sono messo seduto e dietro di me ho sentito due ragazze e un ragazzo in chiacchiera. Parlavano ad alta voce con quel genere di umore positivo e allegro che senza sospetto attira solo odio e furore attorno, nessuna complicità. Nel caso dei tre, in tutto il vagone c’ero solo io a detestarli ma facevo le veci dell’intera Orda Terrore. Per non sentire più quel ciancichìo di superficialità ho rimesso le cuffie e fatto partire di nuovo, la quarta volta, Rise To Glory dei Loudness, accorgendomi quasi subito che la “botta” era un’altra nelle cuffie dell’IPod invece che dalle casse del furgone. Me l’aspettavo ma non al punto di rivalutare le prime canzoni, soprattutto I’m Still Alive, con quel riff strambo, il ritornello pacchiano ma un ritmo tiratissimo, quasi estremo a cui la produzione moderna alla fine offre più di una valida ragione. Intanto leggevo di Bach che cresceva in una famiglia di hippie, con il padre pittore fuori di testa che gli insegnava ad amare la musica rock e i fumetti. Quando poi è partita Go For Broke mi sono sentito decisamente meglio. Ho avvertito un ricircolo di speranza e benessere nel mio stomaco. E se avessi potuto l’avrei espulso dalle chiappe, così da condividerne l’aroma con i miei co-viaggiatori allegroni. Cazzo, mi sarei voltato a urlare a parole smozzicate il ritornello per quanto mi sapeva toccante. Questo è il metal che ho sempre amato: un arpeggio improvviso tra due riffoni, la batteria e il basso che seguitano a picchiare e la voce che si avventura su per una scarpata malinconica ma solo per prendere la rincorsa e precipitare di gomito sul faccione di merda di un mondo che mi fa star male, cazzo! Go For Broke!

Mi sono calmato e ho ripreso a leggere con un mezzo sorriso. Dopotutto Rise For Glory non è niente male! Ma ecco che Bach a quel punto mi ha dato  una mazzata tra mento e plesso solare. Ho iniziato a sentirmi soffocare e la musica è sparita. Il cantante si è messo a raccontare la sua versione dei fatti, di un bambino di 8-9 anni, quando i genitori si sono separati. La sua innocenza perduta, la notizia che i suoi gli hanno dato attorno a un tavolo, proprio come io e Mara abbiamo fatto con le piccole. Leggere lui che raccontava di quel momento, il dolore provato, la rabbia, la paura… mi hanno ricondotto alla mia situazione di merda. Da settimane è un tentativo patetico di fuga da una ragnatela di rimorsi e paure. Ho rivisto il visetto di Matilde. Lei ha pianto. Sua sorella si è limitata a saltellare e dire che aveva fame, mentre lei piangeva e mi teneva stretto come se potessi svanirle davanti da un momento all’altro. Penso di averla delusa da morire e per cosa? E io mi sono sentito di morire con lei e anche ora continuo a imputridirmi dentro una routine solitaria, fatta di lavoro, frustrazione e problemi economici. La mia vita è una cazzo di cassa da morto. E mentre Bach mi diceva di cosa ha passato lui, i Loudness sono riaffiorati con un arpeggio. L’avevo sentito poche ore prima e mi ero quasi messo a ridere perché un giapponese che “spagnoleggia” con la chitarra acustica mi pareva ridicolo e invece ora non c’era niente che non andasse in quel solo. Si sposava bene con i dolori di Sebastian Bach bambino, la desolazione di una casa dove un papà all’improvviso non c’era più e con lui i pomeriggi spensierati a cantare le canzoni di John Lennon tutti insieme. L’odore di colori acrilici, di acqua ragia, di spinelli, tutti ormai lontani. I muri della cameretta di Sebastian ancora in piedi dopo che lui li ha quasi buttati giù a martellate, incapace di esprimere in altro modo la frustrazione per la separazione dei genitori.

Poi il cantante, nelle pagine dopo, parla del suo amore per i Kiss e di quanto loro e il rock l’abbiano aiutato a vivere quel momento di grande instabilità. A un certo però punto ecco l’aneddoto più insopportabile di tutti. Il padre, dopo mesi che sta via torna, una notte soltanto, per accompagnare il figlio e il resto della vecchia famiglia al concerto dei Kiss. Sebastian è così felice quando lo vede arrivare lungo il vialetto, come già era successo tante volte di una vita che ormai non ci sarebbe più stata. E poi, durante lo show, Bach tiene la mano di suo padre. I posti che hanno sono pessimi ma è bello esserci, dice, poter condividere quel momento della storia dei suoi beniamini con il papà al fianco e mamma e i fratellini vicini a lui. Ma papà ha un piano. Appena inizia l’esibizione, quando anche la sicurezza è fissa con lo sguardo sulle esplosioni e l’ingresso della più fottuta e grandiosa band del mondo, l’uomo tira su il figlio e se lo mette sotto al braccio come in passato, tipo pagnotta di pane. E con lui si dirige verso le prime file facendosi strada tra la calca. In quel momento, quando non so da lettore cosa stia succedendo, i Loudness nelle mie orecchie partono con un crescendo di basso, chitarra e batteria che è l’avvio decisivo di Until I See The Light e la perfetta colonna sonora di uno dei momenti più belli della storia di un padre e un figlio. Me lo vedevo nella testa e nelle orecchie c’era la musica giusta che mi ha praticamente scaraventato dentro al libro. Per un attimo ci sono andato a finire, tra quelle righe, nel 1978, anno della mia nascita, quando ero milioni di miglia nella sacca scrotale di mio padre mentre lui, Sebastian era sulle spalle di suo padre a battere le mani e piangere di gioia per avere davanti a lui i Kiss. Ho sentito una tale ammirazione per quell’uomo, il papà di Bach, ormai morto da anni. Fu pronto a sfidare la security pur di dare al suo bambino la possibilità di guardare da pochi metri Gene Simmons e ricordarselo per il resto della sua vita. Ho iniziato a piangere come un cazzone. Un papà cazzone che vorrebbe tanto essere un eroe così. Mia figlia merita una cosa come questa. Gliela devo. Anche se non so ora in che modo regalargliela. Le ho spezzato in due l’esistenza. Ho avuto la sua stessa disperazione, la medesima paura. Non è come sorreggere lo sguardo di una bimba che teme un vaccino o il vocione di un dottore. Lì ho sentito che stavamo morendo un po’ assieme.
Ho interrotto la lettura quando Bach ha scritto che quella sera era stata l’ultima in cui la sua famiglia aveva passato delle ore tutta assieme. L’assolo di Akira Takasaki nel finale di Untill I See The Light ci ha messo il punto e mentre scendevo con gli occhi umidi e il naso tappato ho ricominciato a sentire le chiacchiere di quei tre nei sedili dietro di me. Non li odiavo più, avrei voluto che mi vedessero, così magari li avrei fatti sentire di merda, su due piedi. “Mentre voi ridete qui c’è un uomo che sta di merda, sapete?!”

E poi sono saltato giù dal treno e i Loudness hanno attaccato con un altro quattro quarti un po’ dimesso, The Voice. L’ultimo vagone mi è sfilato da davanti lasciandomi a una stazioncina vuota sotto la pioggia.  Still Waiting To Feel The Emotions! ha gridato Minoru Niihra con la sua pronuncia da zappatore nipponico delle vocali chiuse. Come dici tu, amico. Io intanto aspetto qui, sotto l’acqua, fradicio di emozioni. Sei sicuro di volerne un po’ anche tu?