Malnàtt – Amo guardare come muoiono i bambini!

Se i Malnàtt fossero una band ora parleremmo di scioglimento, autosuicidio tenchiano mosso da indifferenza sanremese del pubblico italiano metallaro. Se i Malnàtt fossero una cazzo di band ora diremmo che Pianura pagana è solo un disco che conclude un percorso iniziato col folk black pagan stomp e finito con il black folk alternative ruock. Ma i Malnàtt non sono una band, bensì un collettivo. Un collettivo inteso come carcassa ricetticolare di enfie malìe, nutrito dalle banche organi dei migliori musicisti bolonnesi. E come un Voltron ormai stanco e disneyano convinto, i componenti si sganciano nella sua deriva celeste e ciò che approda sulla terra indifferente è un concetto, un’idea, un’astrazione, ma attenzione, niente distrazione.

I Malnàtt comunque fanno il culo a qualsiasi metal band italiana in circolazione, anche se non interessati a competere con ciò che comunque non rientra nella loro natura creativa. Diciamo che sarebbero assai più sensibili come eccellenza indiscussa di un obitorio artistico, se vogliamo chiamare così il museo della creatività plastilinata.

Pianura pagana è Swinesong che guarda al passato: quindi c’è il black figo di Discordia, la pula biblica de La voce dei morti, la poesia sugnosa di Happy Days e anche un po’ di ruralismo andante dei primi lavori, ma senza il dialetto. Se avessero ricuperato il bolognese spinto ora sarebbero succhiati nella collettiva crisi di mezza età che attanaglia il 99,99 per cento delle band metal, italiane e non, uscite dopo il 1980. Essendo poi già un collettivo non ci tengono a lasciarsi collettivare.

I Malnàtt invece sono i Malnàtt, ammesso che siano convinti di essere, e per quanto vogliano riallacciare un po’ col vecchio, continuano a tirare avanti la carretta dell’evoluzione ma con un tom tom del 1999, in una cadaverica nebbia prog degna della PFM svenduta al diavolo, facendo incontrare Pasolini e i Dartkthrone, la movida interpretativa di Capovilla e il raw thrash poetico di Majakovskij (ho fatto copiaincolla) e tra lo sbraito, la pece e il delirio ecco che in fundo concedono ai nostri cuori uno dei più bei momenti dell’intera musica cantautoriale italiana degli ultimi vent’anni. Mi riferisco al brano Posso, andante brumoso di sboronanti proclama del Porz che si concludono con un dolcissimo sberleffo da non svelar qui.

Permettetemi di parafrasare Baffone della letteratura italiana… Anzi, Sopracciglione più che altro, vale a dire Alberto Moravia: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Porz sarà tra i pochissimi che conteranno come poeti… Brucerete in un inferno biologico, cari italiani brava gnente. State lasciando appassire un collettivo, state permettendo alla flemma motrice dei vermi di condurre la carcassa lontano dalle vostre otallose orecchie. Ve ne pentirete ma sarete talmente distratti, che nemmeno ve ne accorgerete. (La seconda parte è moraviana ma l’ho aggiunta io.)