Il nuovo dei Saxon è bello. Negli ultimi anni non riuscivo neanche più a vederli in foto e non so nemmeno io perché ma qualche giorno fa mi sono ritrovato a sentire Thunderbolt e alla seconda canzone… bam! The Secret Of Flight ho lasciato invadermi dalla sana euforia energizzata del vecchio metal che non smetto di amare, nonostante sia ormai solo un carrozzone di stereotipi. The Secret Of Flight però non è la solita zavorra in quattro quarti. C’è la freschezza e la potenza cazzuta che sentivo ai tempi di Dogs Of War (e che il mondo ignorava) alla mezza degli anni 90. E per quanto il resto dell’album non risparmi episodi francamente reumatici come Nosferatu e giovaniliste prodezze tipo Predator (assieme a Johan Hegg degli Amon Amarth che rimbrotta guttureo di spalla a Byffone) c’è nell’insieme qualcosa nell’intera scaletta che non cala mai, c’è come un Viagra che sostiene tutto, sempre. Canzoni tradizionali al midollo come Sons Of Odin o A Wizard’s Tale mi riempiono il cuore e sbrigliano la mia fantasia più barbina.
Sons Of Odin è il solito panegirico sul Valhalla, il morire in battaglia, gli dei del nord, insomma tutto il vikingame oramai fottutamente hipsterico ma mentre lo ascolto e riascolto mi accorgo che la melodia del ritornello
Take your sword and end my life
I’m born to die in battles fight
Remember me, my deeds of valour
I’ll sit with kings in God’s Valhalla
è già tra i miei denti e ci scadizzo via la mia frustrazione di sottoproletario con la gioia sensuale di una qualsiasi Silvana Mangano nella risaia del neorealismo del signor Scotti/De Sanctis. Avreste dovuto vedermi come saltellavo mentre andavo al lavoro, nella foschia mattutina!
A Wizard’s Tale l’ è un gran bel metàl. Ci avverto la stessa splendida tensione di Flame Thrower dall’ultimo Priest. Lo stesso miracolo di vita dove meno te l’aspetti. Anche qui niente di niente che non sia stato scartavetrato dai Grave Digger: il solito Merlino, Camelot e tutta la combriccola, però c’è qualcosa nell’andante del pezzo, con il riffone priestiano e i fraseggi, i cori soprattutto, che trasmettono un senso di etera tristezza, una nebulosa pulviscolare di ineluttabile sfiga, attorno alle prodezze del barba bianca, così operoso attorno ai suoi calderoni, mentre re e regine osservano invidiosi e avidi il capo e la coda dei prodigi operati dal grand magus. Quando c’è il coro di oooh ooooh e la ripetuta di fondo strofa: …Dreams Fantastic torno bambino nella mia cameretta, contornato da poster di capelloni spettorati e mostroni deformi e sbavanti. Dreams Fantastic, esatto!
Ascoltando Thunderbolt penso all’ultimo dei Priest e mi viene la tentazione di mettere Halford e gli altri su un tandem assieme ai Saxon e portarli in trionfo fino al fondo di questo 2018. Ho amato Firepower e adesso gli metto a fianco Thunderbolt. E mi domando come mai siano così fighi, questi dischi di due band che pensavo più suonate che suonanti, ormai. Non aggiungono nulla e gigioneggiano per lo più, tutte e due, ma alla fine sto lì e non smetto di ascoltare questi dischi, è come se mi rigirassi nella bocca un bolo autorigenerato di squisita crema. Fatto in un certo modo, nella giusta misura, con la perfetta dosa di ingredienti, con tutti gli ingredienti, il metal funziona sempre alla grandissima.
In Firepower e Thunderbolt non pesa l’avanzare dell’età perché questi album sono sulla misura delle riserve di energie che il fisico può concedere alle due band. I Priest hanno sfanculato le corse con Painkiller e i Saxon fanno i Saxon, senza mai tentare di strafare. Scrivono un pezzo che si chiama Thunderbolt e il ritornello fa Thunderbolt! Thunderbolt! ma è un cazzo di macigno sulle gengive delle mie recchie!
In particolare ammiro molto come Byford sia in forma. Pure qui è lui a fare il figurone, come Rob Halford di là. E non è un caso che ci sia Andy Sneap dietro a entrambi gli album. Se solo Don Dokken si decidesse a farsi visitare pure lui dal dr. Sneap magari godrei giorni insperati. Questo è saper invecchiare: affidarsi ai sanitari giusti!