Non sono un fan dei The Sword ma questo nuovo album mi piaciucchia assaije. Insomma, siamo di fronte ai nu Lez Zeppelin, come qualcuno parecchio più fumato di me disse al tempo in cui iniziarono a farsi notare? No, e devo ammettere che per quanto la retro-band americana sia tra le più brillanti retro-band in giro, le retro-band che brillino sono comunque dei lumicini inutili su una strada che conosciamo anche al buio, non so se mi spiego. Però Used Future mi smentisce ed è la risposta che scagiona tutta sta paccottiglia vintage-rock che stiamo ingurgitando da dieci anni buoni in nome del ruackeroul. Seguitemi un attimo mentre mi si apre un mondo. Used Future non è un capolavoro inespugnabile, musicalmente parlando: la scaletta è farcita di strumentali, ben cinque su tredici tracce, tra l’altro piazzati un po’ a cazzo e non tutti indispensabili; c’è una melodia ricorrente nel prelude, nell’epilogo e in mezzo al pezzo Come And Gone, così da far sembrare il tutto una specie di concept (e forse, dico forse, lo è) e queste cose finiscono per rendere l’album un pasticciato sfilacciato MA! c’è diversa robetta pregevole dentro, soprattutto la title-track, che in qualche modo, con questa visione di un “futuro usato” e guasto rappresenta l’emblema di ciò che nel bene e nel male i The Sword fanno alla grande: si creano un futuro con pezzi di passato recuperati in qualche discarica della pop culture. La macchina della copertina è la metafora perfetta. Se la osservate bene, si vede che è frutto di un estroso e inventivo lavoro di riciclaggio: quella che si definisce customizzazione. Sembra un’auto avveneristica ma è una scultura di rifiuti.
E allo stesso modo, The Sword (o gli Sword) scrivono musica fresca e moderna usando modalità espressive vetuste. Essendo ragazzi naturali degli anni 90, ogni tanto dalle svalvolate psichedeliche gli ci scappa il grunge ma nell’insieme il retro-domino è perenne e inespugnabile. Il domani e soprattutto l’oggi della band è fatto di feedback, moog, tastiere glaciali alla Tangerine Dream e riffoni blues con il vecchio Marshall del mio nonno ribelle sparato a palla. Penso a Nocturne in particolare, traccia strumentale che ricorda le colonne sonore noir anni 80. Vengono in mente distese innevate come quella in copertina, donne bellissime che scrutano l’alba accecante e che poi sbuffano fumo contro il volto di un uomo in giacca, cravatta e una bella cicatrice lungo lo zigomo sinistro. Ci vedrei bene Michael Mann per il videoclip. Ma non ci sarà un videoclip così. E quello di Used Future non l’ho ancora visto. Vado ora a guardarlo in tempo reale, poi vi dico.
Cazzo, che strano effetto mi fa. Si tratta di un finto videogioco dalla grafica stile 1989-1991. I robot cattivi sembrano usciti da qualche esperimento sfigato degli Iron Maiden 1998. Mentre appaiono le scritte lampeggianti tipo press to start, avverto una strana epifania proustiana. Sento l’odore di fumo e vomito della sala giochi dove passavo i pomeriggi da ragazzino, nel 1990, e da qualche parte del mio cervello qualcuno urla ancora una bestemmia così grossa da sconquassarmi la pubertà con un soffio. Poi l’amarcord mi passa e lascio il clip a metà. Carino.
Il futuro dei The Sword è il 1990 quindi, mentre loro, dagli anni dieci del ventunesimo secolo, vestiti come se fossero venuti con la macchina del tempo dagli anni 70, cantano canzoni dal sapore audace e sperimentale di tipo impossibile: in realtà stanno puntando cavalli giusti usando l’Almanacco sportivo dal 1955 al 2000. Sognano, non in bianco e nero ma al color seppia.
Niente da fare, oggi capita questo: tanti artisti si scelgono una decade che non hanno vissuto e fingono di starci dentro ma c’è qualcosa di profondamente poetico e reattivo in tutto ciò. Non è struzzismo pascoliano, bensì una rapina fatta da chi ha subito il più grave di tutti i furti.
Questo è un futuro usato
Pensavi fosse tuo da esplorare
Ma è un futuro usato
Sembra di essere già stati qui
Siamo in un futuro usato
Tutto quello che ci sta davanti decade
Si tratta solo di una nuova sutura
Su una vecchia ferita che ci taglia via tutti quanti
Sono bei versi e per me è facile riconoscermi. Sono fottuto, quello che dovrebbe essere il mio futuro è stato già sfruttato dai miei avidi predecessori. Non mi hanno lasciato che un orizzonte masticato e sputato in cui le infinite possibilità di dare nuovo benessere alla mia vita sono tutte scialacquate dai miei padri.
Si tratta di un brano davvero suggestivo e io lo benedico, così come i The Sword, nuova band preferita di sempre. Insomma, è un gran pezzo. Così io mi sento e probabilmente anche molti altri della mia generazione, defraudati del nostro futuro. Lo vediamo, è lì, ma chiaramente qualcuno ci ha già dormito dentro, se l’è scopato e ha pure lasciato in terra dei fazzoletti sporchi.
J.D. Cronise ha due anni più di me e conosce bene il mio mondo; è anche il suo. Apparteniamo più o meno alla stessa generazione e come me si accorge che non ha nulla di immacolato davanti che lo attende e gli spetta. Il futuro è stato già usato, anzi, disperso, come il libro di Thoth, oracolare testo egizio inglobato dallo stomaco del tempo e mai più recuperato. C’è un pezzo che si intitola proprio così nell’album e non è un caso. Come a dire che persino le profezie scritte non si trovano più, non abbiamo altro che i vecchi suoni, le vecchie cose, i vecchi sogni… ma con essi possiamo creare nuova vita. Dobbiamo farlo. Al diavolo i vecchi che dicono, questa roba sapevamo maneggiarla bene solo noi. Fanculo, anziani predatori. Siete subdoli, canuti gnomi blu (nel senso del viagra) e nulla è davvero solo vostro, poiché nulla avete lasciato a noi.
I The Sword (gli Sword) emozionano e risultano audaci e vivi, almeno in questo disco. E lo chiamo disco di cuore.