La cosa più strana dei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. (Robert Musil)
Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria sembra avere un conto in sospeso con i torinesi stessi. Alcuni lo amano e lottano per riportarlo alla luce, gridandone il mistero e sostenendo la levatura artistica e terrifica insieme di un capolavoro maledetto, altri ne diffidano pur ammettendone l’aspetto avveneristico e dicendo con un certo tremore della voce… che sembra averlo dettato la città stessa alle antenne malandate dell’autore. Giorgio De Maria, tipo strano in vita, morto folle, dimenticato da tutti, persino da se stesso. Il suo romanzo è un horror o almeno sembra. Lo leggiamo e ci accorgiamo di una cosa: parla della vita che conduciamo oggi. Non le statue, gli omicidi sanguinari, ma la biblioteca. Quella è la cosa più sinistra e mentre lo pensiamo un cicalino ci avverte che sta arrivando la notifica di un amico. Andiamo a leggere che ha trovato un fungo prodigioso e che oggi è l’anniversario della morte del suo cane. Guardiamo la foto del barboncino e il grosso porcino e torniamo a leggere De Maria e ci accorgiamo, ma non subito, che in fondo la follia che Torino vive per venti giorni appena, noi la respiriamo mattina e sera da anni.
Le venti giornate di Torino ha qualcosa di Lovecraftiano, lo capiscono anche i sassi, anzi, le statue… e a sforzarci un po’ diventa palese che alcuni degli omicidi avrebbe potuto rappresentarli alla grande il Dario Argento dei tempi migliori, quello che aveva un filo diretto con la sete di sangue della città sabauda. Però attenzione, in realtà questo è un romanzo che in fondo non deve nulla a nessuno. Attinge alle stesse fonti di alcuni grandi artisti col pallino della violenza e l’incubo dietro le piccole cose innocue ma ha una finestra preferenziale su un mondo che il solo De Maria ha scorto.
C’è un’urgenza, mitigata appena da una lieve ironia, dietro il libro. Eppure sembra volerci parlare, a noi, quelli che arriveranno e che potranno rendersi conto meglio di chi è coevo al romanzo e non può comprenderlo o trovarlo interessante. E il suo mistero non si svela in un contesto così imbevuto di social e autoscatti, ma ci accorgiamo che suona strani accordi, famigliari e alieni assieme. E gente come Arduino, Signorelli, così apparentati a questa musica negli anni giovanili lo sentono.
Una lettera, una serie di lettere, non è un caso, è la forma scelta da Arduino per scrivere il saggio indispensabile per l’accesso a le Venti giornate di Torino. Il diavolo è nei dettagli, acquistabile in ebook per due bruscolini e mezzo. Sembra che De Maria abbia captato onde pericolose e che beccare quelle frequenze per lui sia stato possibile proprio all’inizio della sua follia (o forse l’hanno determinata, è difficile da appurare). Di sicuro questo romanzo è qualcosa di vivo che sedimenta e continua a crescere in chi l’ha letto. Finiamo tutti per guardarci le spalle quando camminiamo per strada da soli, avvertiamo la sensazione di non esserlo, soli.
Forse era meglio lasciare il libro nel fondo di qualche libreria di usati invece di rimetterlo in giro in grande stile o magari sarà la nostra salvezza per quando inizieranno a succedere cose strane, si diffonderà l’insonnia come un virus e dai vicoli spenti cresceranno strani muggiti e gorgoglii. Dimenticate la Torino esoterica, quella delle millemila sette sataniche e di tutte le buffe e ridicole leggende. Quella di De Maria è sul serio una città sinistra, in cui lo straniero riesce a fermarsi poco, pressato via da un vago ma persistente senso di minaccia.