Allora, è ufficiale, riprendiamo la rubrica dedicata a DYD. Se fate una ricerca nel nostro archivio, trovate (forse) un pezzo dedicato al numero uno della serie L’alba dei morti viventi. Prima dell’espulsione da Altervista, con relativa perdita di due anni e passa di articoli, ce n’erano anche altri di pezzi sull’Indagatore. E alcuni erano dedicati alle uscite del nuovo corso della serie gestito da Roberto Recchioni. Al tempo ero entusiasta delle migliorie (almeno a parole) che lui voleva apportare e oggi che più o meno tutte le cose pianificate sono state messe in pratica, posso dire che era meglio restare come si stava peggio: cercando di svecchiare Dylan Dog, lo si è invecchiato ancora di più.
Leggendo l’Albo numero 383, firmato da DARIO ARGENTO e Stefano Piani, ho capito una volta per tutte che il tentativo di portare Dylan ai giorni nostri, anziché relegarlo in un limbo temporale tra il 1988 e il 1997 come stava accadendo praticamente da 300 numeri, è stato un autogol. E non sto criticando come è stato fatto il tentativo di attualizzare la serie da Recchioni e co. Un modo migliore non c’era. Semplicemente non funziona. Ogni rimando a internet, wikipedia, i selfie, lo smartphone, Amazon nella solita vecchia Craven Road e così via, è equiparabile a delle gocce d’olio in un bicchiere d’acqua. Purtroppo c’è una totale mancanza di naturalezza, già in fase di sceneggiatura, nell’inserire degli accenni alla modernità. Sono troppo squillati. Perché mettere in grassetto ogni parola nata dopo il 1998?Facendo in questo modo poi si è inevitabilmente tagliato fuori l’Indagatore non solo dal mondo in cui vivono i lettori, e che avrebbero potuto contare su una fuga dal reale per il rassicurante paese degli Incubi anni 90 di Mr. Dog. Facendo così si è tagliato fuori anche lo stesso Dylan dal proprio di mondo e lo si è reso vecchio ed estraneo persino dalla Londra di Sclavi, che non sarà mai quella di Recchioni. Recchioni è solo un restyler. Il suo ingresso in regia non ha altri fini. Non inserisce una propria filosofia esistenziale, non offre una visione diversa. Lui amministra da “ggggiovane” una roba giudicata, proprio da lui “old”. Il Dylan di Recchioni è solo un vecchio di merda in un corpo di un 35enne, un rompicoglioni che ai miei tempi era meglio e oggi va tutto a catafascio e che ancora ascolta la musica in vinile, non sa usare il cellulare e se deve comprare un libro va in libreria sentendosi in parte un handicappato e in parte uno degli ultimi giusti.
Per esempio, se fosse coerente con la mentalità dei cinquantenni, come in gran parte è, DYD avrebbe un profilo facebook in cui posta articoli estremi su vegetarianesimo, la violenza sugli animali e sulle scie chimiche e dietrologie occulte varie. Dylan, se fosse vero, oggi userebbe facebook anche per stalkerare tutte le belle femmine, di cui, dopo averle solo viste in foto nei profili suggeriti dal social, (come gli capita sempre anche in strada), si innamorerebbe perdutamente di loro, e inizierebbe a tartassarle in chat in nome del suo quinto senso e mezzo che gli dice “scopare, scopare, scopare!”. Ma niente, il Signor Dog è uno alla vecchia maniera per quello che fa comodo agli sceneggiatori.
E tutto quello che gli viene messo davanti e che sa di presente, è doloroso come supposte moderne nel suo culo anni 80. “Sto usando WIKIPEDIA, così trovo l’informazione che cerco” – Dolore e sgomento di Dylan. “Ehi, ma dimmi cosa contiene la MEEEMORY CARD??” “Sgomento e perdizione spirituale di Dylan. Sembra che ogni volta sia citato un po’ di presente (tecnologico più che altro) si senta quasi l’orchestra di Terminator in sottofondo. DYD alle prese con cellulari e software vari è come gli Iron Maiden che volevano introdurre la doppia cassa nei primi anni del nuovo millennio. Ascoltate, stiamo usando la DOPPIACASSA! Ora basta, però che Nicko fa la spuma. Senza esagerazioni. Signori, avete visto, se vogliamo, la DOPPIACASSAAAA ce l’abbiamo anche qui all’Iron Maiden pub!
Io me lo immagino Dylan Dog nel dietro le quinte sempre più depresso, con quel cellulare che gli pende dal saccoccino e che magari gli costerà un tumore al cervello che sconfiggerà tipo tra duecento numeri. Lo vedo che sente voci terrificanti dalla sala riunioni, gente che confabula di mp3 posseduti dal demonio, della vendetta degli Smartphone assassini e dei temibilissimi social, che lui dovrà affrontare con la sua pistola scippata di nascosto a Tex, molti anni fa. Che palle! Era meglio se mi facevano tornare nel medioevo, trasformandomi in una specie di stregone indagatore alle prese con vampiri, alberi carnivori e templi dedicati alla dea Badoo!
Coinvolgere Dario Argento a scrivere una sceneggiatura di Dylan Dog è come chiamare Diego Armando Maradona e metterlo a fare il preparatore atletico della tua squadra. Nel giro di un mese ti ritroverai 22 obesi con qualche dipendenza e nessuna voglia di allenarsi. Mi spiego meglio. Argento è sempre stato grande a mettere in scena le proprie visioni ma con i dialoghi e gli incastri narrativi non ha brillato neanche negli anni in cui era al massimo della sua creatività. I soli film suoi che funzionano in fase di sceneggiatura o non li ha scritti lui (Daria Nicolodi è l’autrice di quella di Suspiria) o non li ha scritti da solo (Profondo rosso è co-realizzata con Bernardino Zapponi).
Sapere quindi che assieme ad Argento ci sarebbe stato un certo Stefano Piani mi ha rincuorato perché magari ho pensato, Darione mette le idee, le visioni e l’altro sta attento alla sinossi e agli avverbi e magari scrive i dialoghi. Apro l’albo e inizio a leggere. Dopo due pagine buona parte delle mie speranze sono finite nel cesso.
Scambio di battute tra due donne:
“Resta qui, BEATRIX, controlla che non venga nessuno!”
“Sei sicura di volerlo fare, MARY ANNE?”
Allora… BEATRIX e MARY ANNE. In uno scambio di battute sappiamo già i loro nomi. Perfetto, no? NO! Perché non ha senso. Se voi parlaste con un amico che vi conosce bene lo chiamereste per nome? E lui? Capisco che il pubblico deve conoscere i nomi dei personaggi ma così è giocare sporco o essere molto ingenui. Un esempio per dirvi che le cose dopo non migliorano di molto a livello di dialoghi: a un certo momento Dylan è fermato da un poliziotto e pensa la cosa più normale del mondo: “quando mi ferma un poliziotto mi sento sempre colpevole”. Lo sentiamo tutti quel disagio, i poliziotti lo sanno e si muovono in modo da metterci addosso una strana pressione. In pratica è come se ci spremessero tipo foruncoli e il pus che schizza fuori è il nostro senso di colpa. Se c’è altro, lo vedranno. Ma questo pensiero potevano darlo in testa a una comparsa, non a Dylan Dog. Lui è un ex poliziotto, e anche se al momento con Carpenter non va tanto d’accordo è sempre di casa a Scotland Yard. Quindi il pensiero da comparsa non sembra il suo. Serve a identificarsi col personaggio, ok, ma fategli dire qualcosa che tenga conto dei trascorsi di Dylan Dog. Patente e libretto l’ha chiesto anche lui a tanta gente, per anni.
Ma smettiamola di fare le pulci alla sceneggiatura e teniamoci sull’idea complessiva. Profondo Nero porta Dylan nel mondo del Bondage e la cosa di per sé mi sembra buona e giusta. Si tratta di un contesto in cui direttamente l’Indagatore non ha mai indagato e quindi ok, vediamo un po’ di carne cruda e magari il gioco su fa ehum, duro. Purtroppo i disegni di Roi qui sono la cosa più vigliacca che si potesse usare. In alcuni momenti sono così sfumati che pare di essere in mezzo a una nebbia. Per distinguere due chiappe di culo con le sferzate ci vuole una gran forza di volontà. Non si può girare un porno impressionista, giusto?
Sul piano dell’intreccio la storia è piuttosto noiosa. C’è Dylan che cerca una donna che ha visto in una specie di sogno eccetera. Se ne innamora eccetera ma siccome la bella dama misteriosa a)non diffonde il suo numero di CELLULARE e b)nemmeno ha un’EMAILLLL! e c) non usa L’INTERNEEETTT, allora Dylan non sa che fareeee! Ma come? Praticamente c’è un problema in linea con la sua dimensione temporale 88-97, ovvero una persona da trovare a mano, e lui è in difficoltà? Dovrebbe esserne felice e godersi i suoi vecchi metodi, invece è ancora un coglione perso davanti a un PC ma se glielo levate è perso come chiunque di noi.
C’è da dire però che Dylan Dog non è uno snob. Pare abbia letto sia 50 sfumature di grigio che Il codice Da Vinci. Belli i tempi in cui passava da Conan Doyle ad H.P. Lovecraft a Villon. Anche se per recuperare da Dan Brown, ARGENTO e Pianino citano Giuseppe Parini e il pittore Hans Holbein, quindi l’equilibrio post-moderno tra Alvaro Vitali e Orson Welles è ripristinato ancora una volta.
Bella l’idea di usare la figura del whipping Boy (già che c’erano avrebbero potuto citare di rimando qualche strofa della canzone di Ben Harper, ma persino un musicofilo come Argento rinuncia a far “suonare” DYD come non avviene praticamente più dal numero 100, se escludiamo i tentativi timidissimi del nuovo corso Recchionico).
Se c’è una cosa in cui l’albo delude è nella realizzazione degli omicidi. A parte che ce ne sono solo tre, più uno di cui veniamo a conoscenza dopo che è accaduto, sono roba di una pugnalata e una pistolettata. Quanto avrebbe potuto sbilanciarsi Argento con le sue visioni sadiche? E Roi a disegnarle?
Argentiano però è il doppio finale. Non voglio svelarlo perché di sicuro adesso andrete su un piede solo in edicola a comprare l’albo, se ancora non l’avete fatto, e devo preservarvi dallo spoiler MA! se siete in fissa con Argento dovete aspettarvelo, il doppio finale. In ogni suo film c’è il primo finale (dove di solito l’assassino è un maschio) e il secondo, in cui invece l’assassino è una donna. (Sto citando Chiara Pani). Non vi ho detto niente, ok?
E in ogni caso la grande insofferenza che il regista romano ha per le logiche narrative qui trova un certo sfogo proprio nel colpo di scena in conclusione. Se c’è una cosa che funziona sul serio nel contesto dylaniato, e che ad Argento fa molto “nature”, è proprio lo zig-zag sulla linea di confine tra cosa reale e cosa soprareale, e che ogni sceneggiatore di DYD è libero di superare quando meglio crede. E Argento lo fa (lui e Piani) alla grande. Al cinema forse non glielo avrebbero perdonato ma in casa Sclavi vigono altre regole.