Se Neil Peart avesse avuto un padre massone sarebbe stato Danny Carey dei Tool. Il suo stile ha influenzato l’heavy metal degli ultimi quindici anni grazie a una solida ricetta basata su dinamica, poliritmi e integrazione spinta dell’elettronica nel drumkit acustico. Il bello è che lui è tutto tranne che un batterista metal (del resto non si può misurare l’appartenenza a un genere estremo solo per via della potenza di uno stile, altrimenti Billy Cobham dovrebbe stare di fianco a Joey Jordison, giusto?).
Danny, oltre che con Peart dei Rush, ha una parentela stilistica che lo avvicina molto a Bill Bruford, considerando che l’album Red dei King Crimson una qualche influenza sui Tool l’ha avuta senza dubbio. Ma andiamo con ordine.
Danny Carey nasce nel maggio del 1961 a Paola, nel Kansas. La sua famiglia non ha nulla di particolare a parte che il padre è un affiliato regolare e pacifico di una loggia massonica con una leggerissima fissazione per Dio e le geometrie sacre. Danny assimila molte di queste suggestioni ma non se ne rende troppo conto, passa un’infanzia e un’adolescenza stabile e anche un po’ noiosa. Studia la batteria e, ben presto, si fissa con Billy Cobham e Buddy Rich. Il loro stile è una fenomenale fonte d’ispirazione per lui e quando arriva il momento di tagliare i ponti col nido e volare a Los Angeles, Danny spera tanto di potersene considerare una sintesi perfetta, giusto perché bisogna pensare in grande.
A Los Angeles nel 1986 musicalmente è molto più importante la tua acconciatura che il livello tecnico che puoi avere con lo strumento, altro che sintesi tra Rich e vattelappesca: il rock, specie quello più heavy è dominato da una sfilza di ragazzetti morti di fame che per vivere rubano dal guardaroba della loro fidanzata (oltre che dalla sua borsetta) prima di uscire a suonare in qualche locale sul Sunset Strip. Passano quattro anni e non si muove nulla. Carey però si appassiona piuttosto all’elettronica inglese che al glam dei Motley Crue e si specializza nel tipo di batteria da New Wave. Più tardi riscopre l’amore per quella acustica e alle serate da one man band nei locali della città aggiunge alcune esperienze lavorative in studi d’incisione con artisti dalla fama discreta, almeno all’inizio degli anni 90, tipo i Green Jello e Carole King.
La svolta avviene dall’incontro con Jones e Keenan e da lì, nel 1992, grazie all’EP Opiate ha inizio una delle esperienze artistiche fondamentali del nu rock alternativo.
Danny Carey non nasce fenomeno, deve affrontare un lungo cammino evolutivo scandito in modo molto eloquente dall’intera discografia dei Tool: partendo da Undertow (1993) fino a 10’000 Days (2006) sia le sue capacità tecniche che compositive sono migliorate in maniera esponenziale.
Come approccio Danny è un tipo molto emozionale che trasmette la profonda mutevolezza dell’animo di chi suona, in balia dei venti passionali trasmessi dalla musica stessa: le canzoni dei Tool infatti sembrano sempre delle crescenti, minacciose e talvolta imponenti tragedie siderali in orbita verso il nostro piccolo e indifeso mondo corrotto.
Carey si distingue anche per il modo molto personale che ha di disporre la batteria, piuttosto bizzarro se analizzato da fuori. Segue proporzioni matematiche come la sezione aurea usata dal grande scultore romano Fidia: ovvero se un segmento lungo è diviso in due parti disuguali il “segmentone” è proporzionale al pezzo più lungo come il pezzo più lungo è proporzionale al pezzo più corto. Facendo un calcolo approssimativo il numero irrazionale è 1.618. fi = [1+radq(5)]/2. (Mi state seguendo, non è vero?)
E, per quanto trascenda la logica, è matematico anche il modo di concepire la musica dei Tool, precursori di tutta una serie di band “complesse” inclusi i tanto seminali e intoccabili Meshuggah.
Lo stile di Danny Carey e il suo modo cervellotico di assemblare un kit di batteria fa parte della filosofia spiazzante dei suoi comprimari “Tool guys”. Come gruppo possiamo definirli crowleyiani di ferro (in riferimento al mago Aliester della canzone di Ozzy) oltre che dei trickster da antologia. Le contorsioni musicali, il set up del palco, i video, seguono tutti il concetto di spiazzamento e de-programmazione che stanno alla base di una certa gnosi esoterica; senso dell’umorismo compreso. (Esoterismo… gira che ti rigira siamo sempre a sbatter lì la testa: Satana, l’inferno e le porte della percezione).
Astronomicamente parlando la sua batteria segue anche la disposizione dei pianeti. Le 7 posizioni date da questa teoria dell’equatore sviluppata dagli arabi Al-Kwarizmi, che prendono il nome da tizio che contribuì molto alla storia dell’Algebra e il cui nome ha dato base alla parola ALGORITMO.
Sul palco dei Tool in pratica è tutto “sbagliato” per i cosiddetti standard rock della rappresentazione scenica: a partire dalla disposizione dei musicisti stessi. Si pensi anche a tutte le photosession strambe e le parrucche/output del cantante.
Tornando a Carey la sua particolarità e imponenza risiedono pure nella stazza: 1.96 di altezza. Il suo fisico nutrito è posizionato su una fortuna di quaranta milioni di dollari ottenuti grazie al lavoro svolto con la band. Ha un drumset tutto customizzato, comprese le bacchette (Endorsed by Vic Firth).
Oltre al suo imprescindibile dominio ritmico con i Tool e nella scena metal progressiva, Danny Carey suona anche con un ensamble band fusion/jazz, che si fa chiamare Volto! (ma se non amate quelle cose statene alla larga)
Questo articolo non avrei potuto scriverlo senza l’aiuto dello Zio Putre.