Seconda domenica di fila che tocca a me. Ruggiero Cavallo Goloso se la sta spassando con la sua bella famigliola in qualche festival metal sperduto giù al sud. Neanche ricordo dove sia. Dalle foto e gli audio che mi manda sembra divertirsi sul serio e sono felice per lui. Poi tanto vi racconterà tutto domenica prossima. Io invece sono qui a gestire la vecchia stalla e patisco l’ennesima (speriamo ultima) tornata depressiva di quest’estate 2018. Per me l’estate è sempre così, quasi come il Natale. Non so se sia il caldo o le lunghe ore passate a non poter fare granché, ma soprattutto nel periodo di luglio e Agosto mi sento sempre parecchio male.
Vi descrivo il mio dolore. In effetti non sarebbe neanche corretto chiamarlo così, ma non ho parole migliori per dirvi cosa sia. È come un sottile stato tensivo che parte dalle viscere e mi taglia in due il petto e sale fino alle gengive. Talvolta è come un mal di denti. Capita che mi si veda in faccia e se qualcuno mi chiede: “ehi, ma che hai?” Io rispondo appunto che ho mal di denti, almeno non devo parlare e spiegare qualcosa che in fondo non è spiegabile e di cui parlare serve a poco. Lo scrivo qui sopra perché magari l’ha fuori c’è molta più gente che potrebbe capirmi. Sono sicuro che non porto da solo questa soma. È una fitta che a volte sparisce e altre ritorna. Non se ne va mai completamente e io ho il terrore che mi afferri proprio in momenti in cui sono più vulnerabile, magari in mezzo alla gente.
Ora che prendo certe medicine riesco a tenerla più a bada, ma ne soffro ancora perché, come ha detto il mio psichiatra: non c’è farmaco che ci possa risparmiare il dolore. Forse la morfina, ma l’effetto poi finisce e a prenderla a oltranza ci si ammazza. Questo dolore ti sarà utile, diceva qualcuno. Ne sono convinto. La solitudine, la paura di morire, il senso di fallimento, ci colgono di sorpresa, magari la mattina dopo chissà che cazzo di sogno abbiamo sognato. A volte troviamo nello sguardo di un vecchio signore sconosciuto uno sconforto che è il nostro. È come se recuperassimo uno straccio che speravamo di aver dimenticato da qualche parte. “ehi, è vostro questo?”. Sì, grazie… E con lo straccio in spalla, fetido, sporco e brutto da morire, ce ne torniamo a casa.
Nella vita si può star male per due ragioni vere e proprie: un disordine chimico che si cura con i farmaci e un fatto spiacevole realmente accaduto. Se ci muore la moglie all’improvviso ecco il dolore e una lunga stagione in purgatorio non ce la toglie nessuno. Se abbiamo un disordine chimico la residenza in purgatorio è fissa e, a meno che non troviamo la giusta cura, lì restiamo. Nel mio caso è un misto di cose. C’è come una cosa spiacevole che mi è accaduta adesso (la separazione) e un fatto orrendo che risale a tanti anni fa. Quello è lo straccio sporco, e che provo a lasciare in giro e scappare subito. Ma inevitabilmente ecco la voce: “mi perdoni, è suo questo!”. Già. Mi succede nei momenti più disparati e sono le persone più impensate a restituirmi lo straccio. Ultimamente mi è successo con una donna. Di solito capita spesso con le donne. Sono loro le più petulanti, le più inopportune, quelle che non si lasciano mai sfuggire nulla. Soffro molto per via delle donne. Non sono loro a farmi male, diciamo che qualcosa del mio passato mi ha aperto uno squarcio e chi si premura di far saltare i punti, non volendo, è femmina. Non finisce mai niente, sapete? Mai nulla. Il tempo che passa è una bugia di comodo. Ci illude di aver messo una sorta di distanza di sicurezza dalle tragedie e i corpi dei cari che abbiamo salutato. Ci illudiamo. Siamo ancora quei bambini disperati che papà non è venuto a prendere a scuola. Siamo ancora quei ragazzini tristi che si vedono restituire la letterina con la dichiarazione d’amore per la biondina in fondo al corridoio, quella che non ci guarda mai, come non esistessimo per lei, mentre noi vediamo solo lei, quella stronza. Siamo ancora quei bambini che capiscono di non essere sufficienti a far dimenticare alla propria madre lo schifo di vita che conduce e siamo ancora quei vecchi adulti stanchi e impauriti. Tutto insieme, siamo come un mega archivio di perdenti cristallizzati che basta un qualsiasi dito a estrarre e lasciar sventolare nell’aria densa di Agosto. Eccoti qui, ragazzino! Piangi perché papà ha deciso di abbandonarti. Ecco il bel ragazzo che vide sparire la bara di suo nonno nella bocca del cimitero, quel pomeriggio di primavera del 1996.
Basta un’offesa in strada, basta che qualcuno ci ignori ed eccoci a dodici anni, a quindici o a sette anni. Non smettiamo mai di essere tutto ciò che siamo stati. Si aggiungeranno altri tipi di noi in futuro, ma le versioni precedenti saranno sempre lì, pronte a balzar fuori. Nel 2004 frequentai un corso di cinema. Il posto era una grossa classe con tante sedie e tanti banchi. Una cattedra dietro alla quale si avvicendavano i professori di sceneggiatura, di montaggio, di fotografia, di storia del cinema e poi una campanella che segnava la fine dell’ora di lezione. Dovevamo stare lì parecchio tempo e non potevamo uscire e andarcene senza un permesso. Avevo 25 anni ma nel giro di un paio di giorni mi sentii di nuovo come il ragazzino delle medie che ero stato. Faticavo a intervenire. Non avevo coraggio di alzare la mano e dire la mia. Ne sapevo più di tanti altri ma ero paralizzato dalla timidezza. Addirittura mi ritrovavo a tenere la pipì per ore perché non ce la facevo ad alzarmi e chiedere al professore di uscire un momento. Alzarmi e ammettere davanti ai 25 miei compagni di classe, che dovevo andare in bagno a svuotare la vescica. La vivevo come una vergogna. Ero sconvolto da una tale regressione. Eppure ero in quello stato. E alla fine, proprio come a scuola, la mia ribellione a tutto quel giogo si realizzò con qualcosa di eclatante. Vissi lo stesso schema. Mi bastò essere rimesso nel vecchio contesto scolastico. Anche se stavano insegnandomi il Cinema, non matematica o calcolo computistico, io sprofondavo lo stesso nei miei sogni, mi lasciavo soffocare dalle ansie e mi innamoravo in segreto di una vicina di banco e finivo per annoiarmi a sentir parlare di film d’azione. Dopo che finì quel corso non andai più al cinema per anni.
Sapete, non so voi ma io non ho mai smesso di amare nessuna donna che ho amato. Questa cosa in pochi potranno permettersi di ammetterla e magari c’è chi chiude un vecchio amore finito male e volta pagina e ama profondamente una nuova persona ma a me non è mai capitato. Pensavo che fosse un mio problema però inizio a credere che non sia esattamente così. Amo ogni donna che ho amato e chi amerò farà parte di una specie di harem. Molte delle donne che ho nel cuore nemmeno sanno di esserci. Però alcune sì. A una ho raccontato per bene questa cosa e lei mi ha detto di capire cosa dico. Che per lei è un po’ la stessa cosa. Io sto solo dicendo che nel momento in cui amiamo qualcuno, il nostro sentimento è un accordo. Ogni suono che lo compone è scaturito in differenti periodi e ogni singolo suono non ha mai smesso di suonare. Se ne è aggiunto uno nuovo a ogni donna che ho amato, per me. E più va avanti, più il mio amore assume una forma orchestrale, morbida, pazza e da tempesta wagneriana.
Ho provato a uccidere i miei amori precedenti, sapete? Insomma, ho fatto quello che tutti credono giusto fare. Quando una donna ti abbandona e tu non riesci a smettere di provare qualcosa per lei, cerchi in tutti i modi di dimenticarla, di uccidere il sentimento, facendolo morire di fame, mollandolo all’acqua e al vento. Una volta vi avrei detto che l’amore è come una piantina e la donna amata è l’acqua speciale che serve a quella piantina per esistere. Se la fonte di sostentamento sparisce, la piantina muore, di stenti, a lunga distanza, ma muore. Beh, ci sono amori come cactus. Non hanno bisogno di acqua e possono vivere per secoli nel più inospitale dei deserti. In realtà molti degli amori che ho dentro si sono comportati così. Me li immagino come dei neonati che il padre, mollato dalla mamma, decide di abbandonare in strada, per dispetto, per estrema debolezza. Ci comportiamo così con l’amore. Nasce assieme a qualcuno. Ci viene restituito e ci rifiutiamo di crescerlo da soli. Che te ne fai di un amore non corrisposto? La cosa più inutile e crudele e folle che ci sia: amare una donna che non gliene frega più nulla di te. Però il pianto di quel bimbo seguitava a raggiungere le mie orecchie. Ovunque andassi. Talvolta mi illudevo di non sentirlo più e invece nel buio della notte più nera e tranquilla dell’anno, eccolo lì, come un ronzio fuori stagione, il pianto del bimbo mi trovava.
Finché un giorno non ho deciso di uscire a recuperare quel piccolo mostro d’amore. Portarmelo in casa e tenerlo dentro, dandogli ciò che potevo. Nutrendolo di altri amori, di altre donne, di altri sorrisi, di altre lacrime, di altre carezze e altri pompini. La donna per cui quell’amore era nato neanche sapeva più se io fossi ancora vivo ma il sentimento per lei seguitava a crescere e a farsi forte, a irrobustirsi grazie al cuore di altre mamme. Non so se per voialtri è accaduta la stessa cosa ma io ho vissuto questo e lo vivo ancora. Non riesco a smettere di amare. Non riesco a separarmi da “ogni piccolo mostro”. Ogni tanto una madre ancora si assicura che sia il suo piccolo sia vivo ed è felice di sapere che esiste, perché in fondo è anche roba sua. Ma devo tenerlo io solo. Portarlo avanti per conto mio. Non ho scelta perché lei ha fatto altre scelte e nonostante l’apparenza, ha una nidiata di piccoli mostri suoi, da allevare, nutrire e difendere dal dolore e dalle intemperie dei sentimenti. Non ha tempo per un altro mostriciattolo anche se è stata lei a fecondarlo.
Oggi vi parlo di roba allegra, non c’è che dire. Perdonatemi ma mi gira così. Quello che voglio dirvi è però che in fondo, per tutto il casino di emozioni e sentimenti e amori che abbiamo dentro (o che almeno io ho dentro) non ci sono colpe. Siamo sempre costretti a far entrare in certi schemi il nostro cuore e la nostra mente. Ci è stato insegnato che si ama una donna per volta, che si può amare una persona alla volta. Ci è stato detto che se amiamo qualcuno, quell’essere ci ricambierà, altrimenti siamo pazzi. E che se quella persona ci ricambierà, arriveranno i bambini, un matrimonio e l’esclusiva del suo tempo, i suoi sogni, la sua carne. Sono tante balle che ci procurano dolore e tristezza. Le cose sono molto più complicate di così. Il vecchio mondo lo sa e ci offre una vita d’uscita: scopa di nascosto chi ti pare ma non lasciare tua moglie e menti, menti, menti, nega e nega ma tieni duro. La fame ti passerà e alla fine rimarrai dove eri.
Tanti preferiscono attenersi anche per la trasgressione a uno schema predefinito. Altri rifiutano, ma non mollano lo schema del matrimonio lieto alla finché morte non ci incancrenisca e devasti. Come vedete, per me è tutto molto più confuso e non credo dipenda dalla mia situazione di separato. Troppo comodo. Mi accorgo che in fondo per me è stato così sempre. E come lo è per me, anche le donne che sono state con me hanno avuto dentro un accordo orchestrale, di cui magari io ero il primo violino. Forse si potrebbe davvero giungere a una nuova forma d’amore, a uno schema più in linea con le vere necessità dell’amore. In fondo siamo ancora ai livelli di quello “cortese”. Ma è inevitabile che se ne dovrebbe parlare. E c’è gente che preferisce morire piuttosto che ammettere quanto abbia il cuore confuso, dentro il proprio matrimonio riuscito. I nostri figli hanno bisogno di crescere su una grande bugia, secondo voi? Io ho avuto alle spalle lo sfondo felice del matrimonio di mio padre e mia madre. Oggi a vederli sembrano attori sempre più stanchi ed è come se la mia presenza li irritasse, non solo perché a 40 anni vivo di nuovo tra i loro piedi, ma anche perché non vedono l’ora che mi levi di torno per potersi rilassare e togliere quelle cazzo di maschere.