L’uscita di Blaze Bayley dagli Irons somiglia all’esonero di un allenatore invocato dalla tifoseria dopo troppe stagioni fallimentari. Non tutti però gioiscono: c’è chi spregia la scelta di recuperare Bruce Dickinson come una palese mossa commerciale e sostiene il talento dell’ex Wolfsbane, penalizzato nei Maiden da brani scadenti, una mediocre produzione e linee vocali inadeguate al suo stile.
L’uscita del primo disco solista nello stesso anno di Brave New World è una mossa scontata ma che suscita curiosità e discrete aspettative. Con un giovane e talentuoso gruppo a sua disposizione, Andy Sneap come produttore e una totale libertà creativa, il singer può dimostrare che ha sempre avuto i numeri per giocarsela, magari non su un palco impossibile come quello dei Maiden ma di sicuro alla pari con il cammino in solitaria di Bruce “Bruce”. Silicon Messiah (2000) in gran parte riesce in questa serie di intenti. L’album forse risente un po’ del tipico imbarazzo da scelta di un uomo finalmente “Forever Free” (stesso inghippo con il quale ha dovuto fare i conti lo stesso Dickinson tra Balls To Picasso e Skunkworks) ma, nell’insieme, è un lavoro riuscito, a metà tra le moderne sonorità dei Nevermore e la matrice doom dei Black Sabbath, senza disconoscere l’esperienza con gli Irons. L’effetto sorpresa è determinante, Blaze però non ha paura di battere il ferro scatenandosi sia con prestazioni live euforiche che nella realizzazione dei due ottimi Teenth Dimension (2002) e Blood And Belief (2004). Oltre alla coerenza stilistica e alla crescente qualità in ognuno dei tre album, bisogna riconoscere che brani come Born As A Stranger Alive, Ten Second, Kill And Destroy sono in grado quasi di sbugiardare e surclassare i pochi episodi di The X Factor salvati dalla critica.
Blaze tinge di profondo scuro un power tra Priest, Helloween, Heaven And Hell e Irons. Il suo inconfondibile timbro non è più l’elemento stridente e d’impaccio ma la ciliegina su una torta heavy, gustosa e ipercalorica.
Se c’è una cosa che Blaze ha sempre dimostrato, fin dal suo ingresso nei Maiden, è la sua sostanziale verve testicolare; non era facile rimpiazzare Dickinson e non sarebbe stato un gioco da ragazzi nemmeno sfruttare il curriculum guadagnato grazie ai gusti incomprensibili di Steve Harris; basta vedere i dischi di Paul Di’Anno con la differenza però che il Bailey ha una moglie in gamba che lo ama, alimenta il suo equilibrio interiore e gli fa da manager.
Con lei tutto è possibile. Senza di lei le cose si farebbero dure. Purtroppo un tumore se la porta via e per Blaze inizia, più o meno a cavallo tra la chiusa del bellissimo trittico iniziale e l’avvio di un nuovo progetto con il suo nome e cognome, una inevitabile discesa. I dischi targati “Blaze Bayley” risentono molto delle difficoltà familiari e del lutto successivo. The Man Who Would Not Die e Promise And Terror non sono brutti album ma soffrono di una produzione sbagliata e di scarsa lucidità. King Of Metal, nonostante un titolo così smargiasso, è forse il punto peggiore dell’intera discografia solista del cantante. Nonostante l’evidente affanno creativo, Bayley rilancia però con un super-progetto dal titolo Infinite Entanglement, diviso in tre album basati su un suo libro dedicato alle gesta dell’eroe di Teenth Dimension e il cui esito ci riserviamo di giudicare solo una volta che l’opera sia pubblicata per intero, cosa che dovrebbe avvenire entro il 2019.