RHCP e le sfighe, i soldi, l’eroina, gli spettri inside Blood Sugar Sex Magik !

Sono quasi dieci giorni che cerco di scrivere questo pezzo sui Red Hot Chili Peppers e non ci riesco. Non so, forse le difficoltà sono dovute al mio precario umore, al caldo, alla stanchezza di fine estate, fate voi. Io ho smesso di chiedermi cosa ci sia che non va. Ce ne sono fin troppe di cose che non vanno. Ma oggi sento che è la volta buona. Voglio parlare di Blood Sugar Sex Magik l’album beast (non è un errore) seller della band californiana che portò il crossover in cima alle classifiche e costrinse un sacco di gente a chiedersi cosa fosse il crossover.

Anche i metallari hanno dovuto fare i conti con i Red Hot Chili Peppers. E questo per via di un pugno di canzoni nell’album Mother’s Milk. Un lavoro che io amo ma a distanza di tempo non saprei nemmeno considerarlo come un album metal. Molta roba che girava sulle riviste specializzate metallare, dal 1990 al 1995 era tutto tranne che metal, a dire il vero. Nel 1991 ero un ragazzino e ricordo che a un certo punto uscì il nuovo dei Peppers e qualcuno insisteva a dire che avevano a che fare con il rock pesante. Leggevo le interviste, guardavo i clip e cercavo di capire. Ero fiducioso e aspettavo, un singolo dopo l’altro, di beccare il momento in cui avessero dato l’abbrivio ai chitarroni, ai riff cattivi e alle pose più sataniche, ma Anthony Kiedis, Flea, Chad Smith e Frusciante continuavano a darci dentro con il funk, le ballate semi-acustiche e i bermuda. Non capivo. E non avevo nemmeno sentito Mother’s Milk

Però mi piacevano. C’era qualcosa di molto aggressivo, da qualche parte in quelle canzoni. Poi uscì la raccolta What Hits!? e rilanciarono il videoclip di Higher Ground e lì si avvertiva un po’ di heavytudine, no? Poi c’era un’accelerazione quasi speed metal nel finale, anche se il suono della chitarra non era molto peso e non sapevo che si trattava di una cover di Stevie Wonder, per giunta. 

Non sapevo niente dei Red Hot Chili Peppers nel 1991. Stavano sfondando, si vedeva. E la gente si divideva: c’era chi iniziava ad amarli con roba tipo Under The Bridge e Give It Way e chi rimpiangeva i testi ultraporno dei vecchi album o l’aggressività di Mother’s Milk. Li davano per venduti. All’inizio degli anni 90, una nuova generazione vedeva cadere i rispettivi profeti: Metallica, Guns, Nirvana… e all’insaputa dei più c’era un altro nome che stava vendendo il culo: i Red Hot Chili Peppers. C’era da indignarsi, no? Neanche li conoscevamo e già si vendevano? 

Che poi i Red Hot Chili Peppers metallari di Mother’s Milk erano una cosa abbastanza inverosimile. Si sentiva che Frusciante con quei suoni di chitarra non stava molto a suo agio. Si racconta che quando il produttore Michael Beinhorn disse al gruppo di appesantire le chitarre e fare un po’ di metal sulle ritmiche funky, John si mise quasi a piangere. A sentirlo con quei suoni è un po’ come un bambino fan di Winnie The Pooh, a cui levano il fioretto e mettono in mano un’ascia. Tanto bastò per accogliere i Peppers nel sempre più contaminato e sdoganato mondo heavy. 

Blood Sugar Sex Magik però aveva una serie di cose che potevano accattivarsi ancora i giovani con le borchie sulla pelle: il titolo richiamava allo zio Crowley; all’interno c’era la dedica al bassista dei Firehouse (motivi mai spiegati davvero); c’erano almeno due ballate tristissime e dal sapore anni 70; c’era Rick Rubin alla consolle; avevano registrato l’album in una casa stregata. 

L’abitazione a Hollywood Hill, originaria del 1917 era stata il covo di alcuni gangsters terribili, aveva fatto da nido per i Beatles quando iniziarono a provare LSD; fu la cuccia di Hendrix per un po’ e l’ultimo domicilio conosciuto di un sacco di persone poi scomparse misteriosamente. Kiedis assicurava, al tempo della promozione di Blood Sugar Sex Magik che ci aveva visto un fottio di fantasmi. Se ne vedevano anche nelle foto promozionali, se passate agli infrarossi. Assicurava anche di aver chiuso con l’eroina e Under The Bridge era la classica canzone che sapeva di lieto fine, di fiore splendido carpito alle fauci dell’Inferno e portato a casa di Heidi.

Heidi eravamo tutti noi altri che annuivamo e guardavamo con fiducia ai buoni propositi e le chiacchiere spirituali di Kiedis nelle interviste del 1991. Poi successero un sacco di casini. La casa secondo Anthony era stata la location ideale per un disco unico e un tempio del buon auspicio per il futuro della band. Ci avevano vissuto tutti insieme per dei mesi, solo Chud tornava a casa in moto tutte le notti. Gli altri, con Rubin e un cuoco restavano tra quelle mura ad ascoltare i rumori di catene, i lamenti e le risate folli degli spiriti. Non c’era attrito tra loro e la band. Però le portarono un bel po’ di sfiga. Sì, il disco vendette ma si sa che nella storia del rock, il grande successo di solito è il peggior scherzo di satanasso. Arrivarono i soldi veri. E quei quattro ragazzotti a torso nudo e con il cazzo nel calzino provarono a spegnere il caos di popolarità con un ritorno sotto al ponte. Frusciante se ne andò via causando una crisi nella band e suggerendo l’idea per un piccolo romanzo cult generazionale italiano dal sorprendente successo commerciale. Solo il nostro paese ha subito tutte le disgrazie scaturite dalla decisione di Frusciante: un libro di merda e un nuovo disco di merda. Beh, in vero non erano male né il romanzo di Brizzi, né One Hot Minute ma come generazione post-grunge potevamo avere di meglio. Kidies ricominciò a farsi. Flea si perse pure lui. Navarro era entrato nella band come fenomenale innesto di lusso, ma continuò a suonare la Navarro Music senza cambiare di un semitono. Fu tipo Bergkamp all’Inter. 

Insomma, per tornare in carreggiata, i Red Hot Chili Peppers ci misero quasi cinque anni. Il 1999 uscì Californication e ci volle un po’ per credere che l’hippe con l’aria pulciosa non era Vincent Gallo fuori di set ma John Frusciante. E non è che prima dell’album del ’91 le cose fossero andate meglio per i Red Hot Chili Peppers. Quelli di Blood Sugar Sex Magik erano dei miracolati, sopravvissuti che si beccavano la torta come premio. Già avevano avuto alle spalle un martire (Hillel Slovak) e un sacco di casini tra defezioni in line-up, tossicità ed esaurimenti nervosi. 

Blood Sugar Sex Magik è un gran bel lavoro. Oggi è fin troppo facile capirlo. Allora non era così certo. Anche quando uscì Californication molti storsero il naso. Magari preferivano Aeroplane? Di Blood… se posso dire, ci sono troppe canzoni (17 delle 25 che erano state incise). Le liriche sono ancora belle spinte e sia Flea che il resto del gruppo si accodarono al nuovo precetto avviato dai Metallica del meno è meglio è. E così i giri di basso si fecero meno contorti e i riff più essenziali, gli arrangi più scarni e si dava spazio all’emotività. Magari agli Exodus fece male ma con i Red Hot Chili Peppers funzionò. Nessuno può negare che Suck My Kiss, Breaking The Girl e la title-track siano delle canzoni straordinarie; definire tutto l’album un incessante balzo in alto verso il genio, beh, direi che è un tantino esagerato, però.

Curiosa la storia del brano in chiusura. They’re Red Hot: una delle tre cover incise per il disco e l’unica a essere passata oltre la selezione definitiva; le altre due erano a Hendrix e le pubblicarono poi come bonus. Ebbene, il brano They’re Red Hot, del bluesman satanico Robert Johnson, lo incisero all’aria aperta, su una collina nei pressi di un’autostrada, di primo mattino. A sentirla non si direbbe ma Rubin fu inamovibile; la voleva fatta così. Sapete come è Rick. Quando decide che una cosa va fatta in un certo modo, fate prima a convincerlo a tagliarsi la barba e farsi un bidet che persuaderlo a cambiare idea.