Non ho molto da dirvi, questa domenica. Ci sono delle novità ma voglio aspettare a parlarne. Di sicuro mi sento meglio in salute. Il caldo è un po’ passato e per quanto non sia ancora riuscito a farmi dare qualche giorno di ferie al lavoro (e non possa ancora prevedere bene quando questo accadrà), mi sento più in palla e motivato a continuare con la mia vita da cavallo autista e cavallo scrittore.
Ieri, parlando con una mia amica scrittrice, ho cercato di chiarire due concetti che potrebbero aiutare lei (e me) e chi come noi si danna l’esistenza a scrivere, tentando di farlo diventare un lavoro, di pubblicare, ricevere qualche riconoscimento sociale del proprio talento, farsi leggere da più persone possibili. Il primo concetto è questo: il fine non è la pubblicazione.
Lo so, magari penserete che è una baggianata e io non sono sempre così lucido e forte di spirito da rispettare questa regola, ma facendo un paio di respiri ecco che la lucidità torna ed è più facile vedere le cose come stanno. Pubblicare non vi salverà dai vostri demoni. Pubblicare non significa assolutamente che il vostro libro sia bello. Potrebbe essere il contrario vista la gran mole di spazzatura che c’è in libreria. Magari avete realizzato un capolavoro ma il mercato non ha bisogno di capolavori. Il mercato necessita principalmente di immondizia. Pubblicare e metter piede sul mercato non è un metro di giudizio per la qualità di ciò che avete fatto. Levatevelo dalla testa. Leviamocelo dalla testa. O almeno duelliamo con questo concetto sbagliato. E non dovete deprimervi se un editore vi dice che il vostro libro non rientra nei suoi piani editoriali; domandatevi piuttosto da quanto tempo non comprate un libro di quell’editore e se i suoi piani editoriali vi piacciano o meno. Date una sbirciata a chi e cosa pubblica. Magari sarete felici di non essere inseriti in quel catalogo. Insomma, “non te lo pubblico” è vietato tradurlo in “è una merda”.
Purtroppo gli editori si muovono solo appresso a degli schemi commerciali definiti. E non avete idea di quanto a volte siano assurdi. Pochi editori tentano di impostare nuovi schemi. E una volta impostati, sempre schemi saranno. E lì dovranno tutti provare a rientrare per vendersi. Qualche editore definisce una nuova moda (se preferite questa brutta parola a schema) ma se lo fa ma è per lo più accidentale. Di solito tutti gli editori spererebbero nel colpaccio ma ancor di più vorrebbero crearlo loro e non subirlo. Questa cosa la spiegherò bene più avanti. In realtà non è semplice cambiare le cose e spesso non è per niente un guadagno. Altri ci guadagneranno. Tutti quelli che attendono di vedere dove va la fiumana dell’interesse generale e poi si mettono in cerca degli autori e dei libri giusti per i gusti del pubblico di quel momento. Anni fa in Italia, per esempio fare un esempio, era molto più semplice trovare un contratto di pubblicazione da esordienti che dopo aver già esordito. Non vi dico cazzate. Dopo l’exploit di Paolo Giordano fu così per un po’. Prima che Franchini investisse così tanto su La solitudine dei numeri primi, puntare su uno sconosciuto era visto come un rischio enorme. Dopo Giordano si trasformò in un fattore positivo e di conferma. Era un’illusione scema. Se ne accorse Fazi con Mia sorella è una foca monaca di Sfracelli o come si chiamava. Vi sembra un metro di giudizio valido per il romanzo su cui voi avete buttato sangue, sudore e lacrime essere degli esordienti o meno? E anche se ve lo pubblicano perché è buono sarà sempre anche perché siete degli esordienti. Quel “siete esordienti” come potete gestirlo nel vostro intimo, poi? Questo significherebbe una cosa: ora che non siete più esordienti chi pubblicherà il vostro secondo libro?
E siccome il fine non è pubblicare, non dovete scrivere qualcosa che interessa più al vostro editore che a voi. Vi ritroverete una serie di progetti di cui non vi importerà nulla e in cui difficilmente potrete infondere il vostro genio. Il genio è quasi sempre circondato dalla miseria. Il genio è avveneristico. I maggiori geni della terra hanno goduti i grandi riconoscimenti quando erano un brulicar di vermi sottoterra. Se siete geni questo è il vostro fisiologico destino. Ma è un peccato scrivere quello che va e lasciare i libri che siete nati per scrivere a seccarsi nella vostra sacca scrotale. Se Proust, Stendhal, Balzac, Twain, Pirandello, Lovecraft avessero pensato in questi termini (e talvolta l’hanno fatto pure loro perdendoci sempre, e quindi perdonatevi se ci cascate) ora non avremmo i grandi capolavori della letteratura che questi signori scrissero e ci lasciarono.
Per questo esistono tanti libri mediocri. La gente li scrive per vederli pubblicati, non perché c’è qualcosa da dentro che li spinga a scriverli costi quel che costi, anche non riuscire a combinar niente con un editore. Va una roba alla Twilight e allora bisogna scrivere una cosa con i vampiri adolescenti o magari i lupi mannari adolescenti. Questo pragmatismo è osceno e anche un po’ sciocco. Scordatevi la storia di trasformare la scrittura in un lavoro. Qui non siamo in America. Laggiù c’è un altro concetto di professionalità, ci sono scuole di scrittura che indirizzano a un mondo del lavoro che per quanto sia duro inserirvisi, è reale. Chi pubblica romanzi ha avuto una preparazione scolastica. Chi scrive per il cinema o per la pubblicità viene da un percorso preparatorio. Anche in Italia abbiamo scuole di scrittura che si rifanno al modello americano, peccato che poi là fuori non sia l’America, dove è comunque molto difficile diventare scrittori di professione, là fuori c’è un paese dove pubblicano romanzi a percentuali ridicole, pagano dopo un anno o due, sempre che paghino.
Non dico questo per lagnarmi di quanto il nostro paese sia indietro, ingiusto eccetera. Dico quello che è. Non fate piani sul trasformare la scrittura in una professione. Scrivete per l’immortalità, è quasi più realistico. Se non altro scriverete di ciò che vi preme sul serio, non una roba che magari può interessare perché simile a una cosa che già è stata giudicata interessante dai risultati di vendita. Gli editori si comportano come mia madre. Se per caso un giorno cucina qualcosa di molto buono, tipo il fagiano con le patate a dadini e noi della famiglia la elogiamo e mangiamo di gran gusto, ecco che tutte le settimane continuerà a proporci lo stesso piatto, finché non smetteremo di mangiarlo. Allora smetterà e i fagiani potranno tirare un sospiro di sollievo, nella voliera di mio padre.
Quanto ci sarà di vivo e di indispensabile in un prodotto nato con dei principi di vendita e pubblicazione? Stephen King qualche anno fa scrisse un porno. Arrivò a pagina 70 e si fermò alla scena di due studentesse che si facevano un ditalino davanti alla fontanella del bagno delle ragazze di una scuola privata. Disse: “è troppo ridicolo” e lasciò perdere. Aveva deciso di scrivere questo romanzo porno perché sfogliando una rivista letteraria, era venuto a sapere che un editore piuttosto quotato cercava autori capaci di scrivere roba spinta ed era pronto a pagare parecchio. King ci provò ma poi lasciò perdere. Questo avvenne quando era un ragazzo, prima di Carrie.
Carrie, il dattiloscritto, lo trattò quasi alla stregua del porno. Si fermò a un certo punto, lo giudicò ridicolo e lo buttò nell’immondizia. Lo sapete no? Il romanzo da un fantastiglione di copie sarebbe finito in una discarica a bruciare fumo in forma di dollari se la moglie non avesse frugato nel cestino del marito e si fosse messa a leggere quella bozza che lui aveva bocciato. Perché King si era deciso a scaraventare nei rifiuti un potenziale best-seller ? Perché avrà pensato: chi vuoi che pubblichi una porcata del genere? O magari si sarà detto: non è il genere di cose che compra la gente per farsi il regalo di Natale. Questo è il genere di pensiero che tutti noi scrittori abbiamo. E la favola a lieto fine di King ci rincuora. Nella storia della letteratura ce ne sono tante di fiabe che ci consolano. Autori che pubblicarono a proprie spese e poi trovarono comunque la gloria; editori che lanciarono dalla finestra dei grandi successi editoriali perché non si erano accorti di quali galline dalle uova d’oro si avessero lì, sul balzolo della scrivania. Sono belle storie che ci danno coraggio e dobbiamo prenderle per quello che sono: belle storie. La realtà è la regola, quelle sono eccezioni. Non dobbiamo ignorarle, teniamole presenti quando siamo disperati, ma non ci investiamo l’esistenza. Voi direte, ma certo. E io invece vi rispondo, un cacchio. Non avete idea quanti disperati nel mondo hanno lasciato il lavoro e si sono ridotti a scrivere in qualche albergo pidocchioso, andando avanti ad aria e cioccolato, come Bukowski o magari si sono ritrovati, moglie e figli a carico, a battere come dei pazzi su macchine da scrivere tenute sulle ginocchia, dentro il cesso stretto di qualche camper, come Stephen King. Leggete Martin Eden di Jack London. Lì c’è tutto questo ma anche tutto il resto. Il personaggio lotta per anni con la fame e le umiliazioni continuando a sperare di veder pubblicate le cose che scrive, racconti che spedisce alle riviste, per lo più. Un giorno, quando ormai sembra sul punto di rinunciare, ecco che pubblica il suo primo libro e da quello ottiene un successo enorme. Gli editori dopo il best-seller faranno a gara per aggiudicarsi i racconti e romanzi che fino a prima del suo traguardo raggiunto, respingevano senza nemmeno due parole di consolazione o di saluto. Il problema è che lui, una volta scrittore affermato e ricco e letto in tutto il paese si rende conto che ha praticamente dimenticato come mai abbia fatto tutto quel gran culo per un risultato del genere. Il ragazzo che lottava per raggiungere un tale obiettivo ora è un uomo, diverso, che non capisce più quel ragazzo. E il ragazzo è andato. C’è l’adulto che si guarda intorno smarrito. Martin Eden finisce per uccidersi. La storia è ricalcata sull’autore stesso, Jack London. E anche per il vero scrittore c’è un finale sospetto. Qualcuno dice che sia deceduto e qualcuno che si sia deceduto.
Torniamo a King, La moglie lo spinse a rimettere mano al libro Carrie, e alla fine trovarono un editore interessato a pubblicarlo. Però avvenne presto una cosa molto strana. In casa editrice, attorno a quel manoscritto c’era un movimento strano. I dipendenti facevano a gara per portarselo a casa e finire di leggerlo ancora prima che il correttore di bozze e l’editor ultimassero i ritocchi. Era un fenomeno insolito che fece drizzare i peli sul pube all’editore. Carrie vendette un catafascio di copie ma andò ben oltre le previsioni di vendita della casa editrice.
Quando una cosa del genere accade, magari voi immaginate che l’editore ne sia felice. Sbagliato. Un mio amico ha pubblicato un saggio con un grosso editore. Il saggio si è rivelato un enorme successo ma l’editore si è incazzato e tutto lo staff che aveva lavorato attorno a quel libro pure. E sapete perché? Non l’avevano previsto. Ma non è stato un orgoglio distorto a far incazzare queste persone. Dovevano prevederlo perché per loro è vitale trovarsi pronti davanti al successo, per poterlo gestire e sfruttare al meglio. Se un libro vende oltre i piani di previsione vuol dire che per giorni l’editore non avrà la quantità di copie richiesta da mettere in mano ai distributori e questa cosa vorrà dire perdita di tempo e incapacità a battere il ferro finché è caldo. E se il saggio del mio amico ha venduto tanto, questo significa che i saggi che altri scrittori dello stesso editorie sul medesimo argomento avevano pubblicato e sui quali si era fatto un maggiore investimento prevedendo un maggior riscontro, sono rimasti al palo. Ecco perché l’incazzatura dell’editore e la tetraggine dello staff intorno a un successo non previsto. Sono soldi che si perdono.
Volete vedervela con questi parametri, con questi principi? Credete davvero che all’editore grosso interessi qualcosa se il vostro libro venderà tanto? No. Deve vendere quanto lui ha previsto che venderà. Per il resto potete anche schiattare, voi e il vostro fottuto capolavoro.
Ma per quale motivo King, che sembra una persona così intelligente e pratica, non previde il successo di Carrie? Provo a rispondere io? Secondo me è semplice semplice: non aveva la più vaga idea che il mondo dell’editoria cercasse proprio quello. E nemmeno il mondo dell’editoria lo sapeva di preciso. Erano da poco usciti tre romanzi di grande successo, tre cardini fondamentali del nuovo corso editoriale horror. Rosemary’s Baby, L’esorcista e L’altro. Non è che non ricordo il titolo del terzo, si chiama proprio così: L’altro ed è l’esordio di Thomas Tryon. Un grande libro del terrore che vi consiglio con ardore. Questi tre romanzi avevano venduto un fottio di copie e portato tanti tascabili in casa di gente che non leggeva molto, oltre che in casa di gente che leggeva parecchio. E soprattutto aveva spinto a leggere di demoni e spettri chi non era solitamente appassionato di queste cose. King raccolse i frutti di questa esplosione modereccia che dopo di lui condusse un esercito di giovani frustrati scribacchini a cimentarsi con ragazzine demoniache di provincia e fantasmi arrabbiati. Molta di quella merda fu pubblicata ma nessuno se la ricorda più. Volete davvero fare quella fine anche voi? Perché porsi come obbiettivo finale la pubblicazione vi spingerebbe a quella fine, sapete?
Ovvio, non è che si possa scrivere senza pensare un giorno di vedersi pubblicare. Non dico questo, ma non deve essere il vostro solo pensiero. La pubblicazione arriverà per qualcosa che amate e che avete scritto credendovi nel giusto mentre la scrivevate. Se questo non accadrà pazienza. Il mondo è una valle di lacrime. Quello che conta è starci il più a lungo possibile in salute. Non vi ci ammalate con le fisse. I pensieri uccidono. Se non vi sentite bene quando scrivete un romanzo, smettete subito. Vi siete divertiti lo stesso se è andato tutto come doveva andare. E questo è il secondo concetto: scrivere un romanzo, l’atto di scriverlo, di crearlo e vederlo vivere sotto i polpastrelli delle vostre vite è un autentico sballo. Il solo che proverete. Dopo sarà una delusione totale. Vi assicuro che ci rimarrete male più per i complimenti dei vostri lettori che per gli insulti dei critici. Non ne avete idea ma anche chi vi loda può avervi letto con grande superficialità e parlar bene di voi e di quanto avete scritto giusto per partito preso. Vi sentirete soli, sconfitti. E poi di Stephen King ce n’è uno ogni mille anni, voi non conterete mai abbastanza lettori alle vostre presentazioni e l’editore vi rimuoverà dal suo catalogo appena possibile per fare spazio a un altro sognatore capace di cogliere il momento editoriale giusto. Che è un po’ come saltare in un tombino in movimento da un palazzo di quindici piani. Dentro il tombino c’è quello che c’è e voi rimpiangerete solo l’attimo di grande esaltazione che avrete provato a finirci dentro e non spiaccicati sull’asfalto intorno a esso. Quindi non pensate al dopo. Gustatevi la creazione, la potenza e la gioia e l’incertezza elettrizzante del volo. Il godimento che vi darà assistere alla magia che voi stessi saprete creare è impagabile. Si tratta solo di quello. Tutto lì. Ma è una cosa fenomenale. Ed è tutta natura, come il sesso.
Ovvio che non dovrete scrivere solo per godervi l’atto in se stesso e poi mettere tutto nel cassetto. Quel cassetto scoppierebbe, prima o poi. No, io dico che potrete sperare di pubblicare e provarci, spedendo i vostri manoscritti (se ancora possiamo chiamarli così), ma dovrete cercare di tenere a mente queste cose. E non farvi una malattia della pubblicazione. Perché vi dico una cosa: se lasciaste che il fine ultimo del vostro scrivere diventi pubblicare (e continuasse a succedere che non pubblicate) magari poi smettereste di scrivere. E questo sì che sarebbe un fallimento.
Pubblicare e arrivare ai lettori non vale niente rispetto all’atto di creare, ma chi ci crede? Sono solo belle parole, certo. Vi assicuro che nella vita e nella scrittura c’è magia, ma è meno di quella che si spera e si desidera. Bisogna accontentarsi. Chi ha già finito un romanzo e ha assistito all’incantesimo che scaturisce quando tutto è stato organizzato nel modo giusto e la storia va avanti quasi da sola, può capire di cosa parlo.
Stephen King, tanto per citare sempre lui, è forse l’autore più prolifico del ventesimo secolo. Almeno il più noto tra i prolifici. Se si fosse fermato dopo Carrie e Shining avrebbe potuto campare benone senza più battere una parola sulla tastiera del suo computer. E invece è sempre chiuso nella sua stanza, ogni giorno, a buttar giù romanzi e racconti. Ha una tale compulsione creativa che pare mantenga degli stipendiati scrittori che mettono giù le sue idee e le trasformano in romanzi che lui poi legge, corregge e firma. Lui è tipo redattore-capo di una rivista chiamata Stephen King. E non pubblica tutto quello che scrive. Non avete idee di quanta roba getti via o rimetta nel cassetto. Un cassetto delle dimensioni di un hangar. Perché magari poi un giorno riprende il romanzo che non era riuscito a finire e lo finisce in due giorni. Non si sa mai. Non buttate mai niente che non siete riusciti a finire subito. Il vostro cervello ha solo bisogno di tempo per trovare il modo di concludere. Fate altro e ritentate in futuro.
C’è chi pensa sia un povero ingordo, Stephen King, uno che non trova pace, sapete, tipo quegli imprenditori assatanati che nonostante la grana fatta da tempo continuano a dormire in azienda e scoparsi la segretaria tanto per non dover tornare a casa a farlo con la moglie. I figli si mangeranno tutto, si dice. Nel caso di Stephen King non credo. A parte che Joe Hill è scrittore e si sta dando molto da fare, con riconoscimenti notevoli anche oltre la cerchia degli Horror Writers Associators; ma King scrive e crea perché è la cosa migliore che uno scrittore possa fare. Se smettesse sarebbe solo un altro miliardario che gioca a golf, si annoia a morte e magari si butta in politica o nel settore terziario giusto per sentirsi ancora vivo. E invece è lì, King, che sgobba come e più di voi, che ancora neanche avete terminato il vostro primo romanzo.
E da qui abbiamo un altro concetto base che bisogna affrontare: iniziare a scrivere non significa sciupare un sogno. Ma questo è un concetto che affronteremo un’altra volta.
Stavo parlando di sogni. La realtà è che io scrivo oggi per voi questo pezzo e quando metterò il punto, l’avrò riletto e lo pubblicherò su questo blog, sarà tutto il bello della faccenda. E mi basta, sapete? Non sempre, ma a volte mi basta.