I Rush di Roll The Bones – La trappola della semplicità

Per i Rush del 1991 non è che la gente ci perdesse il sonno. Il loro disco uscì e ne parlarono anche le riviste metal ma senza fare le capriole. A rileggere certi articoli traspare il rispetto, certo, però la convinzione che ormai per la band canadeinse stesse per rollare tutto verso il medio-basso del giurassismo, l’usato sicuro, il mestiere che entra ed esce in modo emorragico, sempre e comunque, ma dai quali, i Rush, non ci si poteva aspettar più miracoli. E Roll The Bones, anche a tornarci tanti anni dopo, sembra appannato, flaccido, diligente ma tutto sommato minore. E invece un paio di Balls!

E dopo aver commesso l’errore di sottovalutarlo, se ne commette un altro non meno fatale: lo si ascolta. E quello che succede è che ci si fotte con le proprie orecchie. Perché Roll The Bones cresce nella testa come un fagiolo magico e durante la notte della nostra supponenza di mortali sopravvivendi, rigoglia come un figlio di puttana fogliolifero, fino ad avvolgere con le sue spire vegetali il cuore, i polmoni; e alla fine ecco dei rametti puntuti che si ficcano nella molle e indifesa corteccia cerebrale nostra, poerina.

E dopo non resta altro che tornare a sentirlo, come la visitazione di un luogo in cui il delitto è ormai avvenuto da tempo ma il mistero permane. Ogni volta si torna e si riparte via con un pugno di mosconi e tanta lieta confusione. Cosa funziona così alla grande in un album che sembra tutto tranne che fondamentale? Come mai Roll The Bones alla fine guadagnò alla chetichella posizioni da classifica degne solo di Moving Pictures in tempi dove tutto doveva essere grunge, grunge e grunge, per vendere? Non si sa. E vi sfido a capire il marchingegno. 

Io sto lì nel momento in cui riparte per la decima volta in tre giorni quel western dell’emotività rarefatta di Bravado, con l’arpeggio di tristessa anni 90 in stile U2 che la testa ancora una volta mi caracolla insieme al basso di Geddy Lee su quelle note che non t’aspetti mai, tranne da lui, e che conducono il solito pirupiru dei tempi di Every Breath You Take in lidi lontani dove Sting non ha mai avuto le palle di andare a parare, oltre le notti infinite dei boschi canadesi nel cuore di una vecchia mummia pellerossa; nel ventre umido di un’Alce e passando fuori dal buco del culo moscicida essere sospinti via a cavallo di una nube pestilenziale fatta di germi e sogni alimentari infranti nell’aria contaminata di Toronto in prima mattina. E da lì si prende l’aereo e si capitombola per le strade brulle che Neil Peart percorrerà qualche anno dopo come un fantasma in cerca della propria pellaccia smarrita.

Roll The Bones, istruisce Wikipedia, si occupa di fortuna, destino, botte di culo e di sfiga e una colata di merda incandescente è lì che si accumula sulla testa del batterista nel duennio 1997-98, questo lo sappiamo noi ma non lui.

Ci sono altri due album ufficiali prima del G.C.D  (il grande casino doloroso) di Neil arrivi, ma non si riesce a fare a meno di pensare che canzoni come Ghost Of A Chance, The Big Wheel e Bet Your Life conducano con ironia profetica a tutto quello, in modo leggero, come i colpi di batteria della produzione abbastanza scialba di Rupert Hine; e le linee vocali rilassate di Lee, mai spinte oltre un certo livello di tensione; e l’aria tranquilla di un gruppo che vuole prendersi una bella pausa da certe complessità trascorse e godersi l’immediatezza.

Già, l’immediatezza un cavolo. Per Lifeson, che lo specificava in sede di intervista, l’album era tutt’altro che semplice, sia a livello di testi e pure sul piano delle musiche; aveva un appeal istantaneo nell’immediato ma che conduceva infingardo l’ascoltatore a voragini di dubbi e intuizioni tremende. L’ultima parte l’ho aggiunta io, non Alexone.