I Horse Shopping!

Oggi, per la prima volta da quando mi sono lasciato con mia moglie… beh, un po’ prolisso dire “da quando mi sono lasciato con mia moglie” per indicare ogni volta uno spartiacque. Mi ci vorrebbe una cosa più corta, concisa, una parola sola magari, semmai una sigla. Me ne vengono in mente due di parole. Piccola apocalisse. Oggi, dopo la Piccola apocalisse… O meglio, dopo la Prima Piccola Apocalisse… perché poi ci abbiamo riprovato a tornare assieme e dopo un paio di settimane circa, sbarabàm, è avvenuta una Seconda Piccola Apocalisse… mi vengono in mente La prima repubblica e la Seconda repubblica. Va beh… Oggi, dopo la PPA, per la prima volta sono andato a far shopping.

A dire il vero sono andato da solo a fare shopping dopo molto ma molto ma molto più tempo. Forse oggi è stata la prima volta in assoluto in cui, da solo, sono uscito di casa e ho passato due ore frenetiche a fare shopping da solo. Da solo solo. Senza una madre, un’amica, una compagna, una con cui esco, una sorella, un’amico gay (l’apostrofo non è un errore perché anche qui parliamo di femminilità) e senza una moglie. E i figli. Senza moglie e senza figli, soprattutto.

E vi dirò… mi è quasi piaciuto. 

Ero convinto che avrei sofferto e invece… io ogni volta che andavo a comprare le scarpe, i pantaloni, le t-shirt, le felpe, le sciarpe, le cinture… perché voi non potete sapere: a casa mia, con i miei genitori, se si usciva per fare shopping era tipo la pizza. 4 stagioni in una. Insomma, io ero sempre triste. Non vedevo l’ora di tornare a casa. Mi vergognavo a spogliarmi in quei maledetti camerini dove una semplice folata di vento o un movimento un po’ scomposto e mi ritrovavo letteralmente col culo scoperto, i calzoni all’altezza delle ginocchia, sudato e rosso come se stessi uccidendo me stesso strangolandomi dalle caviglie. E là fuori c’era puntualmente un bambino che mi fissava.

“Dove è la tua mamma?” gli chiedevo coprendomi con la tenda.

“Boh!” diceva il bambino.

“E perché non vai a cercarla?”

“Perché mi diverto a guardare come ti impicchi”

“Bastardo bambino” 

E non era solo una questione di indossare, spogliarsi, sudare e trovare alle spalle bambini guardoni. C’era mia madre che non andava mai d’accordo con le mie scelte.

“Voglio questi jeans”

“Ma no. Sono brutti da morire”

“Ma a me piacciono”

“E a me no. Non ti mando in giro così. Prova questi”

“Non metterò mai dei pantaloni rossi”

“Allora questi”

“Sono gialli”

“E allora? Possibile che a te vadano solo i neri e i grigi?”

E io che già ero stressato e imbarazzato per lo sforzo di capire cosa potesse starmi bene, dovevo sottostare a questo umiliante battibecco di fronte a una bella commessa che ci osservava e se la rideva.

E io mi sentivo in colpa a dire di no a mia madre. Tenevo botta ma mi sentivo in colpa. Un giorno non ce la feci più e comprai tre camicie variopinte per far contenta lei e magari per dire al mondo: “ok, eccomi tutto colorato, adesso vediamo quanta fica arriva! Se il problema era il colore, coraggio sono fertile e attivo come un Arlecchino figlio di puttana”. Su sfondo bianco quelle camicie terribili avevano righine azzurre, rosse, verdi… una cosa vomitevole. Eppure le portai per anni, nell’attesa di queste donne attratte dalla mia positività vestiaria. Mia moglie futura ex-moglie ancora mi ci sfotte.

Quando è arrivata lei, mia moglie (ora ex) lo shopping è diventato una cosa un po’ meno dispotica ma sempre asfissiante. Provavo dieci paia di pantaloni e poi ne prendevo due o tre, quelli che piacevano a me e a lei. Se piacevano solo a me non andava bene.

Fortuna che mia moglie futura Ex… insomma la mia MFE (moglie futura ex) odiava tutto ciò che avesse una gradazione di colore più chiara del grigio e soprattutto non sopportava qualcosa che non avesse la tinta unita.

Detestavo fare shopping anche con lei. E non parliamo di quando ci portavamo dietro le bimbe. Si annoiavano. Loro, capite?! Mentre per me era una cazzo di festa! Nel passeggino non volevano mai stare. In braccio a me e basta. Avete mai provato i vestiti con un figlio di 18 chili al collo? Ecco perché vi lamentate di provare vestiti, da soli, in un camerino con una tenda che non si spiega bene e lascia 30 cm per i guardoni.

Quando poi le bimbe iniziarono ad andare da sole, a camminare, ovviamente correvano ovunque. Facevano inseguimenti e bisognava stargli dietro, intimando di fermarsi e di ubbidire e venendo ignorati nel più totale disprezzo dei commessi seccati e compassionati dai papà più maturi. E nel mentre provare i vestiti. Chi si lamenta di indossare abiti in camerino con i figli al collo, non ha mai inseguito i figli con tutto il camerino.

Ho evitato per il tempo che sono tornato single di andare a farmi vestiti nuovi per diverse ragioni.

La prima: i soldi. Non ne ho mai molti dalla PPA.

La seconda ragione: non ho la macchina e i negozi dei vestiti più economici non sono molto di strada. Non ci si può arrivare a piedi. 

La terza ragione: non ho il tempo. 

La quarta ragione: non ho voglia.

Soldi, Macchina. Tempo. Voglia. Per me sono quattro parti di una cosa sola: shopping. Se manca una sola di queste quattro paroline, la parolona grande non si incarna nella realtà dei fatti.

Posso avere la macchina, i soldi e il tempo, ma se manca la voglia, è tutto inutile. E così per gli altri elementi. Soldi, voglia e tempo ma niente macchina. E così via.

Oggi è stata una congiunzione di quelle pazzesche. Quattro su quattro. Quindi SHOPPING ! Una cosa da mandare in orgasmo Valentino lo stilista. E quindi eccomi a far shopping.

Sapete, io ho una teoria sul fatto che non ho più fatto shopping. Ho reagito come con il riso.

Ho mangiato riso per due anni di fila, tutti i giorni. Lo usavo al posto degli altri carboidrati composti. Lasciata mia moglie ho lasciato il riso. 

Da sposato e capofamiglia, se c’era una cosa che detestavo era uscire tutti e quattro e andare per negozi. Lasciata mia moglie mi sono dato alla macchia.

La spesa la fa mia madre. Io vivo da lei. Lei mi cucina, mi lava e stira i vestiti. E non mi rompe i coglioni. Quando muore papà le ho già detto che me la sposo io. 

Grazie a mia madre non ho più messo piede in un Conad, Coop, Eurospin, Ins e qualsiasi centro commerciale del cappero. Ero traumatizzato, capite? Come essere finalmente dimesso da una galera e non voler più fare la doccia in uno spogliatoio comune usando una saponetta.

Il riso. La spesa. Lo shopping. Erano tutte cose attaccate a mia moglie. Lasciata lei ho abbandonato anche il resto. A un certo punto però ho dovuto vedermela io con lo shopping. Purtroppo non potevo mandare la mamma a farmi anche lo shopping vestiario. (Dico tante volte shopping per via del SEO, lo so che è una ripetizione eccessiva che appesantisce la sintassi ma che volete, amo essere letto da più gente possibile). Mia madre avrebbe scelto roba gialla o rossa o marrone o variopinta. Quindi alla fine ho affrontato la faccenda da solo, dopo otto mesi dalla PPA. Sotto la suola delle mie Nike c’è un buco da un mese e mezzo. La suola dentro si vede ed è bianca. A vedere l’insieme pare una specie di occhio bianco che mi fissa e sembra interrogarmi spietato. “Quando compri qualcosa che mi sostituisca, penoso reietto?”

I jeans non li ho quasi più. Ho buttato diverse paia quando sono andato via dall’appartamento dove stavo con mia moglie e le mie bimbe perché ho letto su un libro di una giapponese sull’ordine in casa, che la prima cosa da fare per stare bene con se stessi è aprire l’armadio e lasciare solo i vestiti che abbiamo voglia di mettere sempre. Il resto buttarlo via. E io dopo la PPA mi sono trovato con un solo paio di jeans; venti t-shirt (la metà con su scritto Sdangher!) e tre cappotti invernali.

Insomma, devo fare shopping e all’inizio mi si prende a male. L’impulso, nel negozione di scarpe è quello di agguantare il primo paio della mia misura, provarlo e comprarlo. Ma non ce la faccio. Le guardo tutte. Sono scarpe sportive, eleganti, sportivo-eleganti…

“Mi scusi”, chiedo a un commesso attempatello. “Anfibi, ne avete?”

“Solo quelli laggiù”

Li osservo un po’. Vero, sono anfibi ma non mi piacciono. La cucitura intorno è rosso acceso. Non posso guardarla. Io voglio il filo nero, non bianco o verde o arancione.

Me ne vado e provo in un altro negozio grande che vende tutto quanto, scarpe e vestiti. Non trovo nulla.

Un altro grosso negozio più grande, Scarpa Mondo (Cane). Nulla. Niente anfibi. Come mondo è abbastanza nazista perché non concede l’esistenza a tutte le razze di scarpe. Sarebbe più corretto Continente Scarpa, almeno si capisce che solo certi esemplari hanno la cittadinanza, a seconda della stagione.

Ancora un negozio di abbigliamento. Nulla di nulla.

Quando entro in uno di questi casermoni pieni di vestiti e non trovo mai nulla alla fine guardo le altre persone che si aggirano e cerco di capire come stanno le cose. Sembrano tutte galline nell’aia le persone nei negozi. Loro però becca… voglio dire, comprano. Io mi domando se potrei acquistare qualcosa che indossano. Intendo quello che hanno addosso mentre acquistano quello che avranno addosso la prossima volta che torneranno a becc… a comprare. Avete mai fatto caso a che magliette e calzoni orrendi ha la gente addosso quando va a fare shopping? E compra altra roba di merda.

Non sto dicendo che quello che prendo io sia bello e ciò che non mi piace non lo sia. Anzi, sì. Posso dirlo perché in fondo questo è il principio dei gusti. Mi piace: è bello. Non mi piace: è brutto. Gli altri pensano lo stesso di quello che metto io e che loro magari non gradiscono. “Padrecavallo veste di merda”. Però ho sempre la sensazione che la gente che compra le cose che io trovo brutte sia brutta tutta. O meglio ho il vago sospetto che comprino quello che c’è. Perché tanto c’è quello. Si accontentano. Trascurare se stessi è terribile. Cosa c’è di più brutto? Però a volte è anche bello accontentarsi, eroico, saggio… ma forse pure un po’ vigliacco. Ci sono persone che vanno al cinema a vedere quello che c’è. In TV guardano quello che c’è mentre prendono dal frigo quello che c’è. E mangiano quello che trovano. Non cercano quello che realmente vogliono. E qualcuno li spinge ad accontentarsi, a non cercare. Cercare sempre e solo quello che può rappresentarci dal profondo è terribilmente stancante. Chi vende lo sa. E lo sappiamo anche noi.

Io però voglio gli anfibi. Anche se sono 34 gradi all’ombra. Quindi mi aggiro con l’occhio bianco sotto la mia suola e mi trascuro. Non se ne esce nemmeno così, mantenendo la propria personalità incorrotta dall’inedia delle scelte limitate dei negozi.

Ma non bisogna commettere l’errore di considerare chi acquista i vestiti che trova e vede i film che trova come la stessa persona. C’è chi va a scovarsi i vecchi film di Bergman su un sito di torrent rarissimi e poi acquista robaccia che vede in un qualsiasi negozio di vestiti. C’è chi magari si fa arrivare dalla Cina un paio di pantaloni molto particolari e poi va al cinema a vedere Zalone.

Tutti ci accontentiamo in certi frangenti. La nostra personalità non la sprigioniamo in ogni settore della nostra esistenza. Conosco gente dalla spiccata personalità che non ha gusti musicali. E conosco gente dal pensiero politico molto originale che mangia solo pasta Barilla e Sofficini Findus perché le sottomarche fanno tutte cagare.

E va bene così perché una volta ho incontrato una ragazza che era riuscita a sviluppare bene i propri gusti in qualsiasi compartimento dell’esistere. Era una hipster insopportabile. L’avrei bruciata viva con i suoi dischi di ambient-techno libanese e i suoi abiti bio-freak provenienti da un discount di Londra. Un po’ di qualunquismo fa bene. Tempera qualsiasi personalità. E ci fa riposare i coglioni. Perché chi sviluppa la propria originalità in un settore poi diventa intollerante con chi in quel settore è più rilassato e trascurato. Chi cura la propria originalità in ogni campo asfalterebbe il mondo intero, di continuo. Perché il mondo non lo fa in tutto e per tutto.

Torniamo allo shopping. Sto per arrendermi quando infilo l’ultimo negozio dove andavo sempre con la fu moglie e le figlie. E lì trovo tre paia di jeans di mio gusto. Ne provo dodici. E ne scelgo tre. Mi chiedo se a lei piacerebbero, ma non importa più cosa le piace o no. Anche se ammetto di subire l’influenza dei suoi gusti. Dopo dieci anni passati a seguire le sue direttive è un po’ una cosa inevitabile. Riappropriarsi di se stessi è una ribellione necessaria all’ex con cui abbiamo condiviso la vita a lungo. Si tratta di un atto di forza che sembra scaturire dall’insofferenza e dall’odio per il nostro ex ma non è così. Amavo essere consigliato dalla mia MFX ma ora è tutto finito e fino al giorno in cui non mi rimetterò in mano a un’altra dispotica, sarò io a decidere cosa voglio e cosa sono e come mi sento e cosa penso.

Una volta uscito dal camerino e diretto alla cassa sono più sudato che dopo otto ore di lavoro a Roma a consegnar ciccia pesantissima sotto al sole di luglio, ma non ho bambini nei paraggi a fissarmi. Ne sento un paio che si inseguono ma non devo star dietro io a loro. C’è un altro disgraziato a richiamarle. Dove c’è un papà che insegue, una mamma beata contempla i capi da acquistare; è una legge di natura. E mentre a lui monta il malumore per lo stress genitoriale, a lei aumenta perché non trova niente da comprare per se stessa.

“Caro, non mi piace nulla”

“Nemmeno a me, cara”

“Cioè, sì, qualcosa mi piace ma poi non mi entra”

“Nemmeno a me, cara. Ce ne andiamo?”

“Non ancora. Dove sono Luigino e Fiammetta?”

“Vado a cercarli”

“Vai caro. Bravo, vai”

Mi restano da trovare le scarpe. Provo all’Ipercoop. La odio e la temo, l’Ipercoop. Lì dentro ho passato momenti di vuoto siderale, terrore cosmico e disperazione australe. Entro e mi sento già condannato a subire un deperimento dell’umore. Tutta quella fica in giro che nemmeno si accorge che esisti, la gente indifferente e irritata, quelle arie tristi dei mariti, gli sguardi rapaci dei bambini. Lo sguardo “shop on” delle mogli che, come carrrarmati avanzano lungo il tubo dei negozi e negozietti e negozioni in cerca di qualcosa che non serve ma che probabilmente compreranno lo stesso. L’apatia dei commessi. La musica di merda in filodiffusione. Le ragazze con i volantini che ti domandano scusa prima di proporti qualsiasi cosa. “Ti perdono, ti perdono” gli dico senza fermarmi.

Però alla fine io mi sento fermo, posato. Niente bimbi da controllare. Niente moglie da seguire o aspettare. Niente sedute nei negozi di roba femminile a dimenticarmi chi sono. Me ne sto lì e vago e mi avverto sempre più calmo. Tranquillo. Non bado a nessuno e spero che nessuno badi a me. 

Schivo con lo sguardo le facce più cupe e sfigurate dalle compere, mi allontano con l’olimpicità di un angelo dalle ceste di bimbi frignanti. Vedo un padre che tira via la sua piccola da uno di quei carrelli a forma di macchinina e lei inizia a maledirlo in bambinese e lui che suda e impreca… povero papà. 

Io sto bene. Da solo. Non ho neanche voglia di rifugiarmi al bar e prendere un caffè. Perché a un certo punto ci convinciamo che da soli stiamo male? Cosa ci porta a credere che assieme a una donna irritata e in aria di ciclo e dei figli devastanti possiamo stare meglio che sulle nostre due gambe, dalla terrazza dei nostri pensieri a osservare un mondo vittima dei propri stessi inganni? Abbiamo bisogno di compagnia, certo. Ma per questo ci sarebbero gli amici. Già, gli amici. E guardo un centro di assistenza Vodafone.

Ricordo che quando stavo con mia moglie era sempre una discussione perché io volevo un caffè e lei diceva che non potevamo fermarci, era tardi per il caffè. Passavamo davanti al bancone del bar dell’Ipercoop e quelle bottiglie di super-alcolici alle spalle delle bariste se parlassero potrebbero testimoniare di aver veduto sempre un uomo in affanno che implorava caffè, ovvero pausa, ovvero fanculo, ovvero… No! Dovevamo comprare la cena e tante altre cose ed era tardi e poi perché spendere i soldi in modo così inutile? E io mi innervosivo e mi esasperavo. “Nemmeno un caffè quando lo voglio prendere, ma che vita è questa?” C’era un tempo in cui uscivamo e non esisteva il tempo. Ci fermavano per delle ore a guardarci, parlarci, carezzarci, baciarci… davanti a un caffè. Eravamo i padroni del mondo mentre intorno tutta l’altra gente girava e trottolava e mandava avanti un buffo carosello in cui noi non saremmo mai entrati a far parte… ma quando è partito sto cazzo di treno da sotto i nostri culi, poi?!

Niente caffè, ora. Non ne ho più bisogno. Perché potrei prenderlo quando e come voglio. Quindi posso andare oltre. Non guardo nemmeno tutte queste belle signore, ragazze, pischelle scosciate, sculettanti, indifferenti, finte indifferenti. E anche se le guardo e le desidero, non mi deprimo perché non posso averle. Loro pure non possono avere me. Si tratta della vita. Tutti vorrebbero qualcosa che non hanno e sognano di essere qualcosa che qualcuno non può avere. Ma che bel bordello marcondirondirondello. Sono io e il mio respiro. I miei passi. I miei pensieri. Fottetevi tutti e che mi fotta anche io se non sto bene, per una volta, in mezzo a tutti voi e il grande casino dell’Ipercoop. Leggero. Tranquillo. Stanco sì. Ma in pace. Raggiungo il parcheggio lasciandomi galleggiare. Torno a casa.

Le scarpe le prendo sull’internet, penso. Tanto ho presente il modello e il numero. Così sono sicuro che quando arrivano mi entrano. E di certo le pago anche meno. 

Tre paia di pantaloni. Jeans. Giusti. Che mi piacciono. Mi fa stare bene saperli nel mio armadio. Non li laverò. Non credo nella necessità di lavare gli abiti subito dopo averli presi dal negozio. Non prima di averli sporcati io.

E non ho speso neanche tanto.