Dark Angel – Il tempo non risolve nulla e non migliora i dischi ma non uccide ciò che in eterno può attendere!

Ogni volta che riascolto Time Does Not Heal dei Dark Angel non posso evitare di domandarmi che cacchio ci abbia trovato di tanto sensazionale Luca Signorelli. Sia chiaro, lo considero molto buono, uno dei migliori esempi del crepuscolar-thrash di inizio anni 90, ma da lì a paragonarlo alla Nonna di Beethoven… Sì, lo so che ho scritto Nonna anziché Nona. Mi andava di scherzare, ok? 

Di sicuro accetterei un’associazione tra Time Does Not Heal con l’ava del Ludovico Van, intendendo l’album come una signora maestosamente anziana, opulenta e un po’ ripetitiva nei concetti, piuttosto che metterlo al paro con la sinfonia più ispirata del nipote; quella tanto amata da Alex di Arancia Meccanica, per intenderci.

Quando i Dark Angel hanno fatto uscire il loro canto del cigno (o se volete del fagiano o qualsiasi altro pennuto) i Metallica intascavano i dobloni d’oro che manco Willy L’orbo, e lo facevano con un riff e un bel ritornello per canzone nel Black Album. I Megadeth seguivano l’esempio; gli Exodus, Anthrax e Testament pure loro. Dall’altra parte c’erano gli Obituary, i Morbid Angel e i Napalm Death che spingevano al limite di saturazione il discorso thrash-punk.

Gene Hoglan e la sua band avrebbero potuto muoversi in una direzione o nell’altra ma non lo fecero. Per prima cosa credevano che non fosse il momento di fare la pace con il mondo, quindi fanculo i Metallica e chi gli andava dietro. Però non ritenevano nemmeno adatto convertirsi al Death e al Grind, anche perché, come fece notare il batteristissimo Hoglan ai giornalisti del 1991: i Dark Angel quelle cose le avevano praticate già agli inizi. Darkness Discends era citato non a caso dalle nuove band estreme come grande influenza e in qualche modo, sempre secondo Gene, quel disco poteva essere definito un lavoro Death metal; lui di certo non si sarebbe offeso se qualcuno ci avesse provato. Per le cose velocissime del grind poi bastava dare un’ascoltata a We Have Arrived e capire che pure lì i Dark Angel avevano già contribuito alla causa del fast and rumours. Anzi, tutti parlavano male di loro agli inizi, proprio perché facevano una gran caciara e andavano a mille come i “nuovi” gruppi grindcore che si sentivano tanto avanti e speciali.

Quindi fare Death o grind per i Dark Angel avrebbe significato tornare indietro e non seguire alcuna corrente diretta nel futuro del metal. Tanto più che il gruppo stava passando una fase di maturazione compositiva e desiderava sfruttare anche la melodia, non solo il rumore e la violenza. “Se ho un cantante voglio che canti e non che stia lì a grugnire come un porco cinico in attesa del coltellone” – G. Hoglan.

Time Does Not Heal in effetti ha riff cantabili, intermezzi acustici e linee vocali apparentemente melodiche. Dico apparentemente perché nel più dei casi Ron Rinehart cerca di spingere le copiose strofe sui riff (molto complessi per cantarci) e ogni volta cerca di risultare orecchiabile, anche quando proprio non è e non potrebbe esserlo; lo fa con un giochetto che si sgama subito: prolungando l’ultima vocale per qualche secondo.

Esempio: I Have Death Eternally With Anguish
                  I Have Learned To Live My Distreeeeeeeeeeeeeahs
                 For All This Trauma Comes Profound Catharseeeas
                 And A Way To Cope With My Life Bitterneeeeeaaaaaaaayeeeeeah

E qui veniamo al punto dolente. L’album dura un’ora e sette minuti. E questo in teoria per un disco thrash è un disastro lasciato cadere sulle proprie stesse palle. Esistono pochi brani di questo genere a superare i quattro minuti e non diventare una zunna (aka rottura di pampene). Non dico solo per me, sono sicuro che là fuori c’è un mondo intero pronto a confermare: quando il thrash la piglia per le lunghe perde in potenza e diventa semplicemente prolisso. Anche se c’è chi fa presto ad assolverlo con la scusa dell’ambizione progressiva. Si tratta di una legge inevitabile perché i riff thrash, essendo tutti basati sulla ripetizione e il palm mute, trascorrono parecchio tempo sul mi. Fanno una roba come mi-mi-mi-mi-mi-mi-fa-mi o se volete giun-giun-giun-giun-giu tara  giun giun… Ok? E quindi protrarre questi segmenti cromatici per più di una manciata di secondi l’uno è un autogol. I Metallica sono tornati a fare quel tipo di scemenze oggi, dopo che trent’anni fa avevano capito il problema: troppi riff, troppi minuti, troppa carne al fuoco.

Il disco più potente della storia del thrash è Reign In Blood. Non è un’opinione questa ma una legge scientifica. Se prendete a esaminarlo con attenzione vi accorgete che, uno: troppi riff non sono un problema se non ci si chiama Lars culopeso Ulrich – e due: non sembra così breve, ad ascoltarlo. E sapete perché? Perché quella è la velocità naturale del thrash. Già i Metallica diventarono una palla su ...And Justice For All. Non lo erano stati su Masters Of Puppets ma solo perché in fondo quel disco era pieno di cose neoclassiche, arioso e pullulante di idee fiche.

Time Does Not Heal non ha decine di riff memorabili ma è fieramente thrash e anche coraggioso. Hoglan lo ha sempre ammesso: “è così lungo perché è venuto fuori in questo modo, punto. Non potevamo dire quello che dovevamo dire con una nota in meno o una strofa in meno”. D’accordo, ma personalmente ci sarebbe voluto un bravo produttore con le palle, capace di andare davanti a quel monolite ambulante di Hogy e dirgli: “adesso levati dalle palle, vai a farti dodici frullati, passa il resto del pomeriggio su un cesso a squirtare mentre io penso a tagliare sta gran massa di blobba”.

Purtroppo Terry Date non era un tipo fisicamente prestante e non ebbe il carattere sufficiente per aprire gli occhi a Giant Gene e impedire l’esistenza di tutto quel minutaggio sfibrante e calamitoso per gli zebedei delle future generazioni volenterose di misurarsi con la Storia.

Oh, detto questo, adesso posso levarmi le scarpe della sincerità e della coerenza, sempre così strette e costringenti e far scorreggiare anche io un po’ il mio cervello pedalico…

Sapete, quando ci si trova davanti a un lavoro come Time Does Not Heal, un critico può perdere la bussola. Si tratta di un lavoro talmente altro, fuori dal vaso, alla faccia delle buone maniere del commercio, che il rischio di scivolare nel revisionismo e nell’interpretazione visionaria c’è. Signorelli non ha resistito e l’ha tradotto come un album di caratura immensiforme che vuole essere svergognatamente obeso, così da planare in tutta la propria lunghezza e massezza sul fiumetto di formiche traditrici del vero thrash, e mentre quelle schifosette opportuniste se la danno a zampe levate verso la scia di bava lasciata dai lumaconi Ulrich e Hetfield, il massalbum dei Dark Angel le schiaccia dalla prima all’ultima nella sua pesantissima estensione.

E anche io, critico metal come Luca e talvolta anche più passionale di lui, mi lascio prendere dalla voglia di dar fiducia all’imputato Dark Angel fino a contestare la mia stessa teoria di colpevolezza per autoindulgenza e quindi prolissità aggravata. Nel senso che forse il solo vero pregio di Time Does Not Heal potrebbe essere proprio lì, nella sua incuranza di prolissità. I Dark Angel hanno creduto di dare sfogo alla natura dimensionale della propria creatività, in un momento di grandi cambiamenti economici per il thrash. E questa mossa è stata nobile, audace e in fondo degna di rispetto. Quindi trasformare Time Does Not Heal in un disco thrash provetto tipo From Beyond o Seasons In The Abyss, gli avrebbe tolto forse la sua attitudine alla chi veramente cazzo se ne frega.

Voglio dire: “Pain’s Invention, Madness” Rinehart lo urla 20 volte in sette minuti. Possibile che ci sia stato bisogno di farlo così spesso? Davvero ogni momento in cui la band riparte con il ritornello o c’è un altro giro di riff simile ma non identico ai precedenti, è tutto così necessario? E siamo sicuri che la band non si rendesse conto di questo? Forse sì ma era così che bisognava morire, evidentemente per Gene e gli altri. Me li vedo asserragliati nello studio mentre Terry Date piange perché deve andarsene a fare la pipì e loro non lo lasciano uscire. Perché non bisogna concedere nulla al nemico, neanche l’anidride carbonica. Perché è chiaro che secondo i Dark Angel è un finale alla Mucchio Selvaggio. I nuovi amici dei Metallica erano i messicani e quindi ancora il nemico e se il futuro del thrash fosse davvero solo Enter Sandman allora non avrebbero fatto nulla per viverlo. Cazzo e punto.

Ed ecco che in fin dei conti con Time Does Not Heal mi succede quello che mi deve succedere di fronte all’autentica ribellione, in quanto metallaro e in quanto ribelle con le borchie e le toppe sul cuore. Io alzo le corna e lascio passare. Nel metal puoi essere noioso o magari poco originale ma il solo vero requisito che salva tutto è la genuinità. Time Does Not Heal ha questo di buono: il cuore, un grosso e grasso muscolo dell’amore che pompa a fatica ma tiene in piedi quella sbobba di un’ora. Hail Gene, dunque. Hail! Anche se i difetti di questa Nonna di Beethoven io li sento tutti e soffro almeno quanto godo ogni volta che ci ripasso.