Allora, tutto è cominciato con un cinghialetto morto sotto la macchina di mio padre. In questo periodo siamo pieni di cinghiali e spesso attraversano la strada mentre passiamo con la macchina, bisogna stare molto attenti, anche perché hanno un tempismo davvero kamikaze. Quel piccolino deve essersi attardato a grufolare intorno a qualche roveto e siccome mio padre passava con la sua auto proprio in quel momento, ha pensato bene di infilarglisi sotto le ruote.
Morto.
Ho visto papà rientrare con degli animali morti per così tanti anni che oggi non mi fa nemmeno caso. Non va praticamente più a caccia ma se ogni tanto porta una busta che gronda sangue penso: ok, ha ammazzato un coniglio, un pollo o magari gli ha attraversato un fagiano mentre tornava con l’auto. O una lepre. Quando ero piccolo, più di una volta partiva, con me in auto (e senza neanche la cinta) per i nocchieti all’inseguimento di una volpe o un cane randagio o qualsiasi essere che fosse una minaccia per le sue galline. Non mi spiego come mai non siamo finiti cappottati dentro qualche buca in quelle scorribande.
Se però c’è una cosa che a papà non è mai interessato uccidere (non al punto di prendersi il disturbo di sfruttare un turno nella riserva, è il cinghiale. Gli è capitato di farne fuori qualcuno di tanto in tanto negli anni, ma non gliene è mai fregato granché di atterrare quei bestioni. Quindi ero certo, quando l’ho visto rientrare con quel mucchio di peli nella sacca di iuta, che non l’avesse fatto apposta.
“Dovremmo pulirlo” ha detto, ma non era molto convinto della cosa. E poco dopo, come se fosse l’idea più naturale del mondo, ha aggiunto: “perché non chiami le bimbe e glielo fai vedere?”
E io, intelligente quanto lui ho pensato: “ok, perché no? Magari Matilde è interessata. In fondo qualche settimana fa ha insistito così tanto per andare a vedere il nonno che faceva un piccolo intervento chirurgico su uno dei suoi cani da caccia, afflitto da una cisti grossa come un melone… magari le interessa pure vedere da vicino un cinghialetto. Morto. Non ho ricordato tutte le volte che, da ragazzino io mi mettevo a piangere perché papà si ostinava a volermi far toccare degli uccelletti ammazzati a caccia, tacciandomi poi, visto che non lo facevo, di cagasotterìa. Non giudico papà per queste cose, viene da un tempo e un ambiente molto più duro di questo. Un tempo in cui se la gatta faceva sei gattini nella stalla, il contadino li prendeva, infilava in un sacco e immergeva due minuti nella vasca dove si abbeverava il cavallo. E neanche cambiava l’acqua, dopo.
Altro che La tela di Carlotta. La racconterei io una storia della vecchia fattoria, senza censure. E non è male come idea, sapete, ora che ci rifletto? Va beh.
E così l’ho chiamata. Ho chiamato mia figlia che stava facendo i compiti con sua madre in quello che una volta era anche il mio appartamento. Lei è scesa, incuriosita, forse si aspettava qualcosa come la coppia di tartarughe capitombolata non so come nel nostro giardino la settimana scorsa, o magari un cagnolino. Non so cosa, ma di sicuro non un animaletto morto stecchito a far la mostra sul prato di casa. L’ha osservato per un po’. E io con lei. Aveva i peli così lunghi, ho pensato, più dei miei. Che se ne fa di tutti quei peli? Devono tirargli da tutte le parti quando si infila in un roveto, no? Un maiale è talmente liscio, di solito si usa l’aggettivo: setoloso. Però, con molta probabilità, il maiale, nel roveto esce tutto striato di graffi insanguinati. E invece quel cinghialetto è così ricco di pelame, lunghi peli bagnati. Papà l’ha messo sdraiato sull’erba, per impedire al sangue di sporcare tutto il piazzale.
Matilde lo guarda e non dice nulla. Poi scatta indietro: “papà, si è mosso!”
Ho guardato l’animale con attenzione e per un momento mi sono quasi aspettato di vederlo sussultare. Poi gli ho osservato bene le pupille sotto le palpebre semichiuse, come in un’espressione sognante. Sembravano due olive nere lasciate al sole per un giorno intero. “Era andato”, dicono nei romanzi americhieni. Dove? Nel paradiso dei cinghiali? Chissà un uomo che muore e per errore finisce nel paradiso sei cinghiali? Un’altra idea che potrebbe… ah, non lo so. Gli stessi occhi privi di luce del mio vecchio cucciolo. Gli occhi di pongo. Occhi di pongo della morte. Il mio cagnolino morì investito da una macchina una brutta notte, tanti anni fa. Gli volevo tanto bene e ci soffrii per tre giorni. Poi iniziai a farne una ragione. Non l’ho ancora completata, mi sa.
Lo stesso sguardo. Matilde ha detto “ok”. Poi è tornata di sopra a fare i compiti. Io ho rimesso piede in casa e papà è rimasto fuori a traccheggiare con non so cosa. Poco dopo Mara mi ha chiamato chiedendomi di uscire un attimo. C’era Matilde di sopra che piangeva disperata. Sono salito dandomi del coglione. Come mi era saltato in testa di farle vedere quel cinghialetto morto? Perché? In fondo potevo arrivarci che sarebbe stato traumatico per lei, no? Solo che a casa mia sono cresciuto con un padre che a ogni ritorno dalle sue scorribande venatorie mi mostrava orgoglioso una lepre sventrata o un fagiano con la testa insanguinata e penzoloni… Per me era stato da sempre una specie di abc della morte. Più o meno. Ma mia figlia piangeva e andai ad abbracciarla.
Per un po’ l’ho ascoltata solo piangere. Poi lei ha iniziato a parlare. Ha detto che quel poverino è morto investito da una macchina mentre cercava la sua mamma e lei si è immaginata di essere al suo posto, bambina disperata che ha perso i genitori e alla fine è morta investita e non avrebbe più trovato la sua mamma. In effetti, una gran tragedia. Che macello del cazzo, ho combinato. E ha pure un sacco di compiti da finire per domani. Come si fa a fare i compiti se poi succedono cose tanto sgradevoli e traumatiche?
La prima cosa che ho trovato da dirle è stata la più banale e semplice. Si fa sempre così. La mossa iniziale di un genitore è quasi sempre corta di ingegno. Le ho ricordato che le pappardelle al cinghiale le sono sempre piaciute molto. Mia figlia però non ha cambiato umore. “Ma quello era un cucciolo!”, ha detto. Vero. Non si fanno le pappardelle con i cuccioli. Bisogna aspettare che crescano almeno qualche chilo.
“Tesoro, ma quello non era un bambino” ho aggiunto, come il deficiente che sono.
“E allora?”
Già, e allora? Sapete, io credo che un cane che muore non sia equiparabile a un uomo che muore. Di questi tempi è impopolare ma la penso così. Tanta gente odia le persone e ama i cani. Io trovo che sia sbagliato. Bisognerebbe amarsi tra uomini, fanculo i cani. O meglio, vogliamo bene anche ai cani, ma se muore un cane, per favore, non è la stessa cosa che se morisse un uomo. Anche un uomo che nella vita, per motivi o altri, ha ucciso un cane. No? Eppure non me la sono sentita di insegnare questa cosa a mia figlia. Magari potrei dirvi che non lo capirebbe, è troppo presto. Ha appena smesso di credere a Babbo Natale ma guarda ancora solo cartoni dove bambini gatto o bambini cane vivono e hanno i suoi stessi problemi scolastici e famigliari e tante altre avventure. Difficile spiegarle che gli uomini vanno pianti e compatiti e gli animali molto meno. E ho evitato di farle entrare in testa una cosa del genere. Da genitore ho scoperto che si può credere in tante cose, ma il momento in cui lo si deve dire ai figli è tutto più difficile che scriverlo irati sotto il post di facebook di qualcuno. Per esempio, esiste un dio? Io vi direi subito di no… ma quando Cecilia, la mia seconda bambina mi ha chiesto se esisteva un dio, io non ho saputo cosa risponderle. Le ammazzo ogni speranza a sei anni e la lascio solo con Babbo Natale, la fatina dei denti e il pesce di Sant’Andrea? E così le ho detto che non lo sentivo da un pezzo ma forse era tanto occupato. Del resto nemmeno io lo chiamavo da un po’.
Chi l’ha detto che i cani non valgono quanto un uomo? La vita di un essere vivente, quando è l’uomo, non è paragonabile a quella di un altro essere vivente ma di specie diversa? Gli Indiani d’America erano così rispettosi della Natura. La concezione che il mondo sia tutto a nostra disposizione perché dio ce l’ha donato è fasulla. Almeno quanto dio. Se dio non esiste allora nessuno ci ha autorizzato a fare gli stronzi con l’ambiente e gli animali. Le mosche però le schiacciano tutti, mentre i cani li lasciamo vivere quando abbaiano e abbaiano dal cancello di fronte a dove abitiamo.
Credo che in realtà si provi empatia per animali che abbiano una specie di umanità da qualche parte. Una formica col culo rosso difficilmente ci farebbe venire da piangere a vederla schiacciata sotto il palmo della nostra chiappa. Ma se la Pixar facesse un film epico su un esercito di formiche dal culo rosso e nel finale finissero schiacciate sotto un gigantesco culo, eccoci lì, tutti a piangere disperati.
Il cane parte vincente di suo: con quegli occhi innocenti, affettuosi, affamati di carezze, quel piagnucolio con cui prova a dirci cose dolci, tristi… non è una formica col culo rosso, magari somiglia al vostro vecchio zio morto solo e scoperto dopo due mesi. In fondo neanche cento anni fa in alcuni posti della terra gli uomini di colore erano chiamati negri e venivano venduti e trattati come bestie, la loro vita non valeva quanto quella dei bianchi. Magari tra duecento anni i cani voteranno.
Insomma, ho detto a Matilde che mi dispiaceva. E che non avrei dovuto farle vedere quel cinghialetto morto. L’ho abbracciata ancora un po’ e poi le ho detto che presto le sarebbe passata. E che era meglio pensare ai compiti.
La sera mia figlia è venuta a cercarmi nella cameretta dove sono auto-confinato. Raramente si spinge fino a lì. Inizia di nuovo a piangere e io le domando se è ancora per quel cinghialetto. Lei mi risponde di sì. Poi però inizia un discorso strano. Sentite cosa mi ha detto:
“Non è solo il cinghialetto morto. Io soffro anche quando vedo una bambola trattata male. Ti ricordi che ci spiegavi delle nostre cose, che dovremmo prendercene cura perché se le trattiamo male è come se facessimo male a noi stesse? Ecco, io se vedo un pupazzo mio che Cecilia sbatte a terra provo pena per quel pupazzo, come fosse vivo. In ludoteca c’è un bambolotto, tra i nostri giochi. Alcuni bambini un giorno si sono messi a tirarlo in aria come fosse una palla e io quasi piangevo. Avevo solo voglia di gridare che dovevano lasciarlo stare, che ero triste per quello che gli stavano facendo”
Mia figlia ha dieci anni. E per la prima volta credo di essermi accorto di avere davanti a me una persona con le proprie idee, una consapevolezza profonda di se stessa e una testa incasinata il doppio della mia. “Ma questa cosa ti succede per qualsiasi oggetto che vedi trattare male?” le ho chiesto. “Per dire, se io prendo questo libro e lo sbatto in terra, a te dispiace per… il libro?”
“No. Non mi importa di lui”
“Di lui? Ok. Quindi, gli oggetti che vedi maltrattare e con i quali ti immedesimi, devono avere una forma umana, altrimenti non te ne importa?”
Lei ha annuito e nel mentre ha tirato su col naso.
“Beh, posso capirlo” le ho detto cercando il pacchetto dei fazzoletti.
“Ma io no!” ha risposto lei con decisione e con rabbia.
“Come sarebbe, tu no?”
“Non lo capisco. Nessuno è come me. I miei compagni di scuola non sono così. Non hanno certi pensieri che ho io. E io ne ho tanti, di pensieri. Quando sono in classe mi distraggo sempre e la maestra si arrabbia e mi sgrida ma è più forte di me. Sono lì e penso, penso. Inizio a guardare fuori dalla finestra e vedo delle cose e così inizio a pensarci su e mi scordo cosa stavo facendo. La maestra se ne accorge e se la prende con me. Mi ha proibito di guardare fuori dalla finestra. E io però è come se avessi una finestra in testa. Vedo delle immagini e i pensieri che vengono dietro non finiscono mai”
“E cosa vorresti fare? Fermare i pensieri?”
“Sì”
“Beh, c’è un trucco ma ci vuole tempo per capirlo”
“Tu lo sai fare? Mi dici come si fa?”
“Ancora fatico a riuscirci. E non so come insegnartelo, purtroppo”
“Tu e la mamma andate dagli psicologhi. Loro vi aiutano in queste cose?”
“Vorresti andarci anche tu?”
“Non lo so. No. Io vorrei solo che qualcuno mi aiutasse a pensare a meno cose. E a non sentirmi così”
“Così come?”
“Diversa”
“Diversa da chi?”
“Da tutti. A scuola mi sembra di essere io e tutti loro. Li vedo che stanno insieme, e sembrano essere un blocco solo. Mentre io sto da una parte”
“Vuoi essere come loro?”
“Sì.”
“Ma lo sai che loro fingono di somigliarsi tutti? Che fanno in modo che tu li creda tutti uguali?”
“Vorrei riuscirci anche io a fare finta di essere come loro. Ma se lo faccio non sto meglio. Mi sento sempre sola e non ho nessuno a cui dirlo”
“Beh, hai me, no? Io ti capisco se mi dici queste cose”
“Davvero?”
“Certo. Mi sembra di sentire me alla tua età”
Ho pensato di raccontarle la storia de L’invasione degli ultracorpi. Con i baccelloni, gli alieni che prendono il posto delle persone e i pochi che vogliono impedire a dei mostri in grado di riprodurre le loro forme e sostituirli, di renderli così passivamente uguali agli altri… ma non ci ho provato. Del resto a me non interessa se mia figlia vota comunista, un giorno. Magari le facevo pure venire gli incubi, con quella storia. Allora ho tentato la carta Maynard Keenan dei Tool. Nella sua biografia si parla del punto di vista alterato di un creativo. Della soma che un artista deve affrontare nel vedere il mondo diversamente da tutti e sentirsi così solo e incompreso. Non è una cosa tanto per dire. Si tratta di un dato con cui bisogna fare i conti se si è destinati a fare milioni con l’arte. Un giorno quel problema diventa una risorsa e l’artista cambia il mondo, riuscendo finalmente a mostrare agli altri ciò che vede lui e permettendo loro di rivelare a se stessi una realtà diversa, a uno strato più profondo. Ma mia figlia non vuol saperne. E inoltre non tutti quelli così diventano ricchi e famosi. Molti sono soli, incompresi e poveri e dimenticati per sempre. E in effetti ha ragione lei. Ha dieci anni. Io solo intorno ai quattordici ho iniziato a fregarmene dei miei amichetti così diversi da me e sostituirli con scrittori morti. Lei desidera solo sentirsi come tutti. Io alla sua età ero disperato riguardo questo. E non posso neanche dire a mia figlia, “ci sono passato, poi le cose cambiano. Perché non è così. I pensieri che non ti lasciano in pace io li ho ancora dalla mattina alla sera. Anche se conosco il trucco. E usare il trucco e liberare il cuore dalla tempesta di pensieri allevia un pochino ma neanche tanto. Si tratta sempre di vivere con due tappi di cera in un appartamento costruito sotto il ponte della tangenziale. E la sensazione che gli altri siano un grosso blocco uniforme e io invece non ne faccia parte è sempre la stessa. Ora ci penso meno e so che esistono anche altre persone come me. Scrivo per trovarle, per lanciare degli appelli. Come se fossi su un’isola e mandassi messaggi in bottiglia. Quando qualcuno mi scrive che gli è piaciuto un mio pezzo o un mio libro, io penso: “ecco un altro dei miei”. Ma mia figlia non ha un blog e guarda certi adolescenti sul tubo che blaterano cose incomprensibili per minuti e minuti. E vorrebbe fare ed essere come loro. Gli youtuber. A volte vedo lei, Cecilia e mia nipote, tutte e tre imbambolate davanti al tablet che seguono i video di questi tipi. Mi metto lì e non capisco.
Chiedo loro: “ma capite davvero quello che vi stanno dicendo? Come mai vi interessa?”
E loro neanche mi rispondono. Alzano le spalle e basta. Sembra di stare nella prima serie di Channel Zero. Con i figli di tutto il paese che ogni pomeriggio si piazzano davanti alla TV a guardare la serie per ragazzi Candle Cove. Poi però gli adulti scoprono che sullo schermo c’è solo neve elettrica. Niente di niente. I bambini però sono lì e guardano.
Magari è solo un problema generazionale. I nostri figli non dovrebbero usare il talet. E noi dovremmo stare attenti con i social ma non penso sia giusto darci troppo addosso per questo. Il mondo è così cambiato in pochi anni. Siamo tutti frastornati. Nel 2008 vivevo con mia moglie in una casa senza l’allaccio a internet. Il mio cellulare riceveva ancora sporadici sms. Oggi i miei figli comprano a mia insaputa una bottiglietta d’acqua su Amazon dal costo di otto euro. Io direi che le cose sono un tantino troppo veloci da fermare e ci vuole tempo per capire il modo. Solo dopo centinaia di anni abbiamo capito che fumare davanti ai nostri figli li uccide e cerchiamo di non farlo più. Magari internet ci rende tutti più scemi ma i nostri bis-nipoti saranno pronti a fare qualcosa di serio per proteggere i propri figli da questo casino.
Ho abbracciato a lungo mia figlia. E non ho detto molto. L’ho solo tenuta stretta a me. Il comizio su quanto sia bello essere diversi e su quali doni la solitudine e la profondità d’animo possano riservare agli individui tormentati gliel’ho risparmiato per altri giorni lontani. I poeti più grandi erano tutti dei tossici. Molti scrittori alcolizzati e suicidi. Io pure scrivo ma non è che mi prenda così cura della mia igiene orale. Cosa c’è di confortante per un genitore nello scoprire che il proprio bambino rischia di essere uno scrittore da grande?
Poi ci siamo salutati. Lei mi ha sorriso e io le ho detto che può sempre cercarmi per parlare di queste cose. Ha annuito. Poi è tornata di sopra da sua madre. Poco dopo ho scritto a Mara. Le ho raccontato di quanto mi abbia fatto soffrire aver tirato fuori a mia figlia tutta quella tristezza con la storia del cinghialetto. E lei mi ha risposto che non devo preoccuparmene troppo. In fondo nostra figlia è più normale, a piangere un pomeriggio intero per un cucciolo di cinghiale morto ammazzato, di tanti altri bambini costantemente fissi a guardare video su you tube e che magari avrebbero salutato con un’alzata di spalle il povero animaletto investito prima di tornare ai video di quei fottuti youtuber di merda.
Sì, ma anche mia figlia guarda quei cazzo di video…
Non so se stiamo facendo bene a incoraggiare nostra figlia ad accettare la propria diversità. O meglio, so che è giusto farlo, ma poi la vedo soffrire e chiedermi perché lei è diversa e come mai ha l’impressione di soffrire più spesso e per più cose dei suoi compagni di classe. E allora mi domando cosa dovrei pensare a riguardo. Cosa dovrei sperare per lei. La vita è anche un cinghialetto morto per sbaglio. Ci sono bambini uccisi per motivi peggiori. Nel mondo, mentre io consolavo mia figlia, magari, a qualche milione di miglia da noi, una bambina della sua stessa età veniva venduta al mercato del sesso a uno della mia età. Insomma, il mondo è così.
E mia figlia soffre per un bambolotto picchiato per gioco dai suoi compagni. Ma sapete cosa penso? Che sia una cosa molto bella, in fondo. E che sia giusto accettarla. Non reprimerla. Mia figlia è sensibile. Molto. E allora? Questo dovrebbe farmi credere che sia più vulnerabile di quei ragazzini che lanciano da un balcone un vaso sperando di colpire due vecchie signore che passano lungo la strada di sotto? Mia figlia piangerebbe per le due signore ma probabilmente anche per il povero vaso e il fiore spappolato in terra con i crani delle vecchie donne mescolate al concime, mentre fino a un momento prima il fiorellino era sereno nel suo vaso su un balcone a chilometri di altezza dalle donne. Beh, io direi che è meglio la mia bimba di quei due pischelli tiratori di vasi, no?
E forse mia figlia un giorno mi dirà che non ne può più di sentirsi morire per tante cose che non vivono ma di cui sente la sofferenza. O forse no. Sorriderà delle sue commozioni da bambina e si giudicherà sciocca. Ma finché sarò vivo io la abbraccerò e non la prenderò mai in giro per questo. E le dirò che la capacità di sentire la tristezza e la disperazione di un vaso, un accendino o un alberello, hanno aiutato Anderssen a scrivere alcune delle sue fiabe più belle. E male che vada, nella sua vita, anche mia figlia scriverà fiabe. Magari solo per i suoi bambini, ma non è mica poco, no?