A quanto pare, gli inglesi Haken, con la loro quinta uscita discografica, che si intitola Vector, si sono messi a fare roba parecchio pesa. Rispetto alle cose più vecchie, intendo. O meglio, così dicono loro. Io non so se questo sia vero. Tempo di sentirmi gli altri quattro album non ne ho. Vector però mi piace. Non è una cosa da spingermi alla conversione cristiana in tempo dispari, però si tratta di un buon album progressive moderno. Fanno pensare ai Leprous, anche se quando alleggeriscono sono molto più easy, più paciosi e melò rispetto ai norvegesi. Vengono in mente anche gli ultimi Pain Of Salvation. Insomma, il prog degli anni recenti. Senza fruscii vinilici e pose a zampa d’elefante. Qualche barba hipster, magliette nere e occhi pieni di pixel.
La bravura degli Haken è innegabile, anche se le parti più heavy sono troppo precisine e rifinite per far male in qualche modo. Il problema del progressive è sempre quello: fa il progressive. Voglio dire, di concetto un album prog dovrebbe essere come una specie di viaggio verso l’ignoto. Inizia una musica che va e va, portandoci in posti incredibili e inimmaginabili. Quando i pischelli degli anni 70 sentivano un nuovo lavoro dei King Crimson non sapevano bene cosa aspettarsi, no? I Genesis con Gabriel, i Gentle Giant dei fratelli Shulman… Neanche si pensava: sto ascoltando prog, yeah! Si pensava: chissà che cazzo è sta roba? Però figata!
Purtroppo oggi il prog ripercorre più o meno sempre gli stessi sentieri battuti. Ci sono i tempi dispari, le tastiere strane, le melodie poppy, le parti più stoppate, qualche fronzolo recuperato dal metal estremo, tanto per farci vedere che “loro” sono “aperti” anche alle “nuove” tendenze” sozzone del thrash-death-black più bercio e così via. Roba che gira da vent’anni ma loro la scoprono ora, quando è stato addomesticato e reso parte dell’accademia. Gli Haken per esempio sono così. Magari se ne escono con un momento blast-beat ma si sente che è stato sdoganato dalla Crusca del rock e rivisto e perfezionato nei laboratori della facoltà di rumorismo. Non c’è il male, non c’è gente che non sa cosa cazzo stia facendo ma lo fa e si becca pure i fischi mentre continua a farlo (vedi gli Atheist o i Death).
Tornando a Vector, si viaggia bene nel consueto parco protetto ma qui e là si aprono voragini inaspettate e ci si emoziona. O almeno io mi emoziono. C’è un pezzo in particolare che mi ha ammaliato. Sì, Puzzle Box è molto bella e anche l’ultima A Cell Divides ha un epilogo che mi fa pensare alle asettiche morti argentiane di inizio anni 80, non chiedetemi perché. Ma la vera specialità è Host, con l’intro in stile Rimini d’inverno, la tromba e il mellotron che passeggiano lungo la riviera come due lesbiche un po’ ubriache e depresse, mentre dopo le onde, in lontananza si scorge una barca in avvicinamento, e dentro ci sono due corpi legati a un palo, imputriditi insieme. Cadaveri innamorati. Qui ci ho sentito gli Opeth di Watershed ed è una cosa davvero niente male se volete saperlo da me.