Buona domenica equina. Non vi sto scrivendo da una vecchia cameretta intasata di libri, riviste metal, attrezzi per la palestra e fazzoletti sporchi. Ora mi trovo nella mia nuova casa. Una casa tutta mia. Dove vivo solo io, certo, le bimbe, quando verranno a stare da me per qualche giorno. Che poi è la stessa casa dove abbiamo vissuto per dieci anni io e la mia famiglia.
Ora la mia famiglia, come sapete, non c’è più. O meglio c’è ma non è più strutturata come prima. Adesso sono io, le mie due figlie, i miei genitori, mia sorella, la mia nipotina e basta. Non ho mai avuto una famiglia numerosa. Se ci metto un paio di zii in coda vi ho detto tutto il parentado stretto. Sì, poi c’è Barbarano Romano. Circa mille abitanti. Lì in qualche modo sono tutti legati geneticamente con me, però andiamo già sul terzo o quarto grado. Mio padre era figlio unico, capite?
Comunque eccomi qui. Mara si è trasferita e ora io sono il capo qui. Devo ammettere che avevo una paura fottuta di tornare quassù. Era un po’ come vivere ancora in un posto dove è avvenuta una tragedia, dove si sono subiti diversi traumi. Normale essere pensierosi. Però appena ho saputo che la casa era libera, ho iniziato a provare un sorprendente senso di eccitazione. Al punto che ho deciso di ripulirla e portarci, come direbbe un americano, il mio culo il prima possibile. E ora sono qui. Certo, i muri che ero abituato a vedere occupati da mobili ed elettrodomestici sono spogli, sporchi, scorticati. Queste pareti avrebbero bisogno di una urgente ritinteggiata, ma dice che ora il tempo non sia favorevole alla pittura e che bisogna aspettare i nuovi caldi.
Per evitare di misurarmi con una casa vuota – della serie I Ceccamea non abitano più qui – ho fatto un po’ di mosse, diciamo psicologiche. Ho riportato su tutti i miei libri, così da riempire ogni scaffale perché non avrei sopportato di vedere spazi vuoti. Ho rimediato un cesto, ci ho messo un po’ di frutta e l’ho piazzato sul tavolo della cucina. Dovrei appendere qualcosa ai muri, ma a parte i quadi di mio padre, con i cavalli (lui dipinge solo quel soggetto), non ho nulla. Ho addirittura pensato di tappezzare le stanze con i poster delle band heavy metal che ho messo via, ma non posso lasciare così libero l’adolescente disagiato che ho dentro di me. Non so, ci penserò.
Nonostante la stanchezza e le mie migliorie, stanotte ho dormito male. Mi sono svegliato diverse volte e ho provato un certo senso di angoscia. Non sono solo. I miei abitano al piano di sotto. Però vivo solo. E non mi era mai successo, prima. Dieci anni fa ho lasciato casa dei miei per andare a stare con Mara in un appartamento. Poi ci siamo trasferiti in un altro appartamento e infine ho chiesto ai miei di aiutarmi a ricavare un alloggio nella loro grande casa, in modo che io e Mara non continuassimo a sperperare i nostri soldi in affitto e magari li usassimo per farci una macchina.
Siamo stati qui per tanti anni e ora io sono di nuovo qui, da solo. Sento molto le mie radici. Non ho alcuna smania di cambiare aria. Amo questo posto, mi fa sentire forte, protetto e ispirato. Qui vicino ho il bosco e l’aria di campagna mi rinvigorisce ogni mattina. Sul serio: non sono un equino metropolitano. Adesso devo solo tenere pulito e migliorare la mia casa sempre di più. Voglio che trasmetta calore domestico. A me. E ora proprio non ci siamo. La casa è troppo spoglia e priva di personalità. Eh già, qui non si sentono più le urla delle bambine di prima mattina, le urla mie e di Mara quando discutevamo la domenica. Oggi è domenica ed è tutto così silenzioso. Mi manca quel caos. Mi manca la mia vita di prima. Però siamo qui, su questo pianeta, in questa dimensione, per dire addio. Sempre, a tutto. Non voglio buttarla sul tragico ma funziona in questo modo. Ditemi una cosa che prima o poi non dovrete salutare? A me non ne viene in mente nessuna. Per quanto ci sentiamo attaccati, affezionati, fusi a una persona o un oggetto, arriverà il giorno in cui gli diremo addio.
Ma questo non è un fatto negativo. La morte è la sola cosa che dia un senso a tutto questo girotondo di incazzature, gioie, terrori, umori e scarogne. Se non ci fosse un punto conclusivo, saremmo un romanzo infinito, noioso e insopportabile. Finirebbe per non leggerci più nessuno. Prendete la serie televisiva The Walking Dead. Sta diventando la metafora vivente dello zombismo. Ogni stagione ripete il girotondo di morti, disagi, sofferenze, epifanie, colpi di scena. E via via la gente la sta mollando e sapete perché? Se non lo faranno gli autori del telefilm, lo faremo noi. Metteremo il punto e le diremo addio. Siamo noi a mettere la parola fine a The Walking Dead. Fosse stata chiusa alla quinta stagione, probabilmente ora avremmo un buon ricordo. Non so voi ma già quando è arrivato Negan (bel personaggio, non c’è che dire) ho pensato, ci risiamo, ecco un altro Governatore. Qui non si finisce più, che palle. Ma quando lo scoprono sto cazzo di vaccino?
Vi immaginate di essere ancora qui tra 400 anni? Quanta gente vi odierebbe? Per esempio io detesto una certa famiglia del mio paese. La detesto. Non mi ha fatto nulla ma ce l’ho con loro. E sapete perché? Continuano a riprodursi. Ok, voi direte, che male c’è? Nessuno. Però hanno dei geni molto forti. E ogni volta che si accoppiano con geni di un altro tipo, il risultato non cambia. I figli hanno sempre quella faccia, quell’espressione somatica precisa. Sono almeno duecento anni che dalle mie parti gira quella faccia. E io non la sopporto. Come non tollero i vecchietti troppo ostinati. Quelli che non accettano di morire. Cazzo, ma quanto vuoi occuparla quella seggiola sul tram? Inizio ad avere gli acciacchi anche io. Sarebbe ora che la lasci a un vecchio meno vecchio di te, no?
La vita è necessaria. Non posso dirvi a cosa, non ho questa presunzione, però ho una mia idea generale che mi suggerisce questo: dobbiamo arricchire lo spirito con certe esperienze prima di restituirlo. Un altro lo prenderà dopo di noi e lo arricchirà ancora e così via. Dio sa perché. Magari alla fine questi spiriti a noleggio saranno rottamati e diventeranno fantasmi. Sto vaneggiando, eh? Ora, seguitemi un attimo però, la vita è anche il tempo sufficiente che ci serve ad accettare l’idea che si deve morire. Ci sono dei vecchietti che hanno saputo morire bene. Ma sono pochi, la maggioranza dei mortali muore male. Urla, piange, scalcia, vomita, odia i figli che continueranno a vivere. Sapete l’invidia del malato? Tolstoj ci ha scritto pagine incredibili. E io non sopporto tutto questo. E so che forse anche a me non verrà tanto bene congedarmi. Però allo stesso tempo ho una enorme insofferenza per quelle persone che si ritrovano a settant’anni e a morire nemmeno ci pensano. Va bene se non vuoi, ma fingere che non accadrà è quantomeno idiota, no? Solo che loro per questa illusione metto sottosopra il mondo. Si comportano come se fossero eterni. Ho visto vecchietti di 85 anni in groppa a un trattore che intasavano il traffico domenicale. Un mio collega è finito in coma perché un vecchietto l’ha investito in pieno. Non ha rispettato lo stop. Veniva dalla campagna, dove a 80, si recava tutti i giorni in macchina, per adacquare i pomodori. Non era più in grado di guidare ma grazie a una raccomandazione gli avevano rinnovato la patente.
Si dice che una volta le tribù trattavano con rispetto gli anziani, erano quasi sacri, veneravano la loro esperienza e si facevano consigliare. Ora io mi chiedo cosa cazzo potrei venerare e chieder consiglio a mio zio, per dire. Forse può dirmi come si piantano i fagiolini ma sul coraggio, la lealtà, la coltivazione dello spirito, ha idee confuse quanto le mie sulla suddetta coltivazione di fagiolini.
Ok, so che non è facile mettersi nei panni di uno che ha sì e no dieci anni di vita davanti, va bene. Li sto giudicando, questi poveri anziani, però lasciatemi finire. Li vedo che si lamentano col medico perché non stanno bene e non hanno più la forza di zappare l’orto e di andare a caccia. E se non possono fare quelle cose allora si chiudono in casa e guardano La vita in diretta. Ma come? Possibile che in tanti anni non ti sei trovato attività confortanti per lo spirito? No. Ci sono persone che hanno lavorato sempre e vorrebbero continuare a lavorare per sempre, finché le giunture non si spezzano. Negli anni non si sono degnati di leggere un libro o di curare il proprio spirito in altri modi che non fosse spaccandosi la schiena o camminare per chilometri e chilometri con un fucile in spalla. Possibile?
Va bene, lo so. Nessuno dovrebbe permettersi di criticare la vita di un altro. Io pure per qualcuno sto sprecando la mia, in questo momento. Ma che lo capiscano o no, quegli anziani moriranno. Ecco la grande consolazione. Si leveranno di torno comunque, a un certo punto. Ed è giusto così. Forse hanno ragione loro. Che senso ha imparare a fare una cosa che ci riuscirà comunque? A morire sì, ma dire addio è un’arte che si dovrebbe imparare, proprio grazie a tutte le esercitazioni che l’esistenza ci impone prima del grande sonno.
Certo è che se si dovesse morire a discrezione, poi, saremmo tutti ancora qui, a fare le nostre merdose cose per il resto dell’eternità. E l’omicidio sarebbe un male inevitabile e necessario. Insomma, se non ci fosse la morte, bisognerebbe inventarla, non trovate?
Mi bevo il mio caffè. Questa casa e io dobbiamo riprendere confidenza. Per me è come una grossa creatura di cui non so ancora se mi possa fidare o no. Mi proteggerà o mi travolgerà con i suoi spifferi e cicatrici dei ricordi? Vedremo. Di sicuro bisogna che ci lavori su. Questa stalla ha bisogno di una paglia speciale. E prima mi metto a cercarla, prima la trovo.