Prima di tutto voglio specificare che, nonostante abbia sentito per bene il disco, non ho avuto mai e dico mai il sospetto che si trattasse di gente indiana. I Dirge sono indiani ma non vogliono in alcun modo farcelo pesare. Io immaginavo, a sentire i pezzi, che fossero italiani o inglesi, figurarsi. O magari francesi. Anzi, no, troppo intelligibili e orecchiabili per essere francesi. I francesi credono nella sofferenza e nella monotonia come garanzia di non so cosa. Ma non importa.
Insomma, i Dirge sono una doom-death-sludge band indiana, all’esordio, e con un concept dedicato a Montezuma e Cortez. La storia vera la conosciamo tutti: gli Aztechi (i futuribili messicani) attendevano gli dei bianchi, dispensatori di saggezza e conoscenza. Quando arrivarono i conquistadores spagnoli, pensarono che fossero loro gli dei che attendevano, e così gli permisero di raggiungere (a cavallo, non dimentichiamo che i cavalli in questa storia furono determinanti) il cuore della loro civiltà, ovvero il palazzo di Montezuma. Il re li ospitò con grande piacere e rispetto. Quando però Cortez e i suoi si accorsero che c’erano stanze piene d’oro, pensarono che fosse doveroso per il re e i suoi selvaggi di lasciarglielo portare in Europa. Montezuma disse: “ehm…” e Cortez rispose “ah, è così che la metti?” Da lì le cose andarono sempre peggio, fino allo sterminio totale degli Aztechi. I Dirge probabilmente raccontano più il mito che la realtà dei fatti svolti al tempo. Parlano di demigod, Revenge of Montezumadeché e di altre cose spiritiche. Il che va benissimo, ci mancherebbe. Questa è la prospettiva metal. Un po’ la stessa di Rambo e Asterix, per intenderci.
Il bello è che se non avessi capito di cosa parlava l’intero concept, non avrei immaginato altro che brughiere, metallari malnutriti in giro per i cimiteri di Halifax e qualche resuscitato cieco qui e là. E invece no, bisogna trascinare la mente nell’America centrale, al cospetto delle grandi piramidi Azteche, la giungla torridissima, i beceri e spietatissimi conquistatori spagnoli e tutto quel sangue e quell’oro e quel sangue…
Le tracce del disco sono sei, ma una è quasi un piccolo intervallo respiratorio di tre minuti e mezzo (The Dilemma) con una chitarra che strimpella accordi apparentemente non a caso. Le altre cinque durano tutte nove minuti e rotti… I coglioni pure, qualche volta. Ma non sempre. Bisogna dire che i Dirge sanno variare le lunghe composizioni, con brani cadenzati, altri più tirati, frammezzi acustici e atmosferici e persino momenti corali. Sì, c’è di buono che si canta pure, come per esempio nel finale enfaticissimo di Montezuma’s Revenge.
I Dirge infatti guardano parecchio alla tradizione anglosassone del death-doom di inizio anni 90, ai Black Sabbath e Maiden e allo sludge più canonico di Neurosis e Eyehategod. La voce è un urlo costante che dopo un po’ titilla la ghiandola biliare ma la musica sa come spaziare e stimolare. Non è sempre tutto riuscito ma tenendo presente che si parla di quasi cinquanta minuti divisi per cinque segmenti, solo gli Opeth potevano cavarsela in un’impresa del genere senza annichilire il mondo suscitando vandalizzanti scenate di insofferenza.
Quindi bravi. Ah Puch! (che a dispetto di quello che possa significare, noi lo facciamo suonare come Chapeau!)