E così i Di’Aul (i diauli? Maronna li diauli pe li capelli?) son de Milàn. O meglio di Pavia, che tutte “qualsiasi cosa ci metti” fa rima con si porta via. Allora, per cominciare bisogna dire che non ho pensato mai si trattasse di connazionali. Ed è un bene. Nel senso che quando affermi, di un gruppo Italiano, che ascoltandolo neanche sembra un gruppo italiano, gli stai facendo essenzialmente un complimento. Perché noi, che ci facciamo sempre riconoscere, è meglio, almeno nel metal, che non ci facciamo riconoscere. Solo così magari riusciamo a prenderci sul serio, come meritiamo. Non sempre, ma i Di’Aul sì. Meritano di essere ascoltati senza i paraorecchi di chi pensa: “ah, che palle, questi sono milanesi e suonano come funghi nati sotto le ascelle di Kirk Windstein, qualcosa non mi torna. Ma vaffanculo. Senti la musica e pensa a quello che penseresti quando sai che è gente svedese, finnica, irlandese, tedesca o di qualsiasi altro cazzo di posto che non sia la tua merdosissima Italietta.
Secondo me i Di’Aul sono grandiosi. E non è vero, come scrive Metalitalia, ripetendo la parola “personalità” nel giro di due righe, che peccano di personalità. Io trovo invece che questi quattro menegazzi sappiano il fatto loro. E che, per inciso, se un gruppo dopo un ep e due album ancora non ha una personalità così sviluppata è del tutto normale. Ma vogliamo finirla di comportarci con i gruppi esordienti con la stessa pazienza e lungimiranza degli osservatori dell’Inter? Che poi è vero, molte volte non si trova differenza tra un gruppo all’esordio e uno che ha otto album sulle spalle ma nel caso dei Di’Aul c’è tempo per dire che non sono maturi.
E comunque i Di’Aul sanno scoparci già bene. Per prima cosa propongono un doom trascinante, cosa che molte band dedite a questo genere trascurano (la musica metal deve farci fare a tutti sì con la capa, altrimenti qualcosa non va, chiaro?). Però non si limitano a ripetere il verso dei gruppi di New Orleans e tanto meno cileccano il Southern birignau di Zakk Wylde. No, rombano sodo, con bei quarti pentatonici e quando pensi di aver già capito più o meno tutto, ecco che ti immergono fino al collo in una pozione grunge sopraffina. E allora taci e ascolti… e magari ti commuovi pure.
Sentite Garden Of Exile e ditemi se non sembra una ballata elettrica depressiva affogata in qualche tazzona di Starbuck. Vi assicuro che ci vuole classe per realizzare un pezzo del genere. Fossero dei fighetti di Seattle già parleremmo di ferite riaperte sul culo del fantasma di qualche martire anni 90. Non bastano due riffoni in croce alla Tony Iommi e nemmeno qualche urlo alcolico per fare una canzone che sappia dare del tu agli affari esteri. Qui c’è un sentimento puro che sale come un fottuto serpente predatorio lungo le spalle e ci avvolge amichevole, sospingendoci verso una lunga strada buia e deserta per darci poi in pasto a gigantesche fauci di malinconia. Ecco, cosa c’è.
E con Mother Witch andiamo anche oltre. Non è la solita stoneggiata esoterica da fumati del piffero, qui c’è tutto un naufragio di riff e melodie catarifrangenti. Sto fuori, lo so. Melodie. Catarifrangenti. Ok, mi spiego meglio: in un certo senso le buone melodie riflettono i sentimenti, i dolori, i sogni e gli incubi con cui illuminiamo il buio davanti a noi. E quando ci imbattiamo a tutta birra in un pezzo catarifrangente, ecco che la notte risponde e ci impedisce di precipitare in un burrone là davanti. Ci dice, fai sta cazzo di curva e procedi ancora. La fine non è questa.
Inoltre, i Di’Aul non la tirano troppo per le lunghe, mai. Con il precedente Garden Of Exile non hanno sforato i quaranta minuti e questo è indice di buona educazione, quanto meno: qui ce ne mettono una trentina e qualche spiccio per triturarci in una melassa di groove, magia nera e mestizia esistenziale. E congedarci in un bagnasciuga di arpeggi e cantati alla Pearl Jam con la ciambella in un mare di petrolio e pesci morti.