The Haunting Of Hill House. La casa degli invasati. Probabilmente per godersi la serie televisiva di Mike Flanagan, è indispensabile non sapere nulla del romanzo originale (e il film di Robert Wise) da cui attinge.Shirley Jackson è autrice di uno dei libri e degli incipit narrativi più belli dell’intera storia della letteratura horror e, almeno secondo Stephen King, la prima ad aver dato all’horror la dimensione in cui ancora oggi si ritrova.
Il vero “tradimento” di Flanagan (il cui telefilm è senza dubbio pregevole) è aver riempito Hill House di mostri e spettri ben visibili e caratterizzati (in linea con i dettami di James Wan) oltre ad aver dato spiegazioni precise di rumori e scossoni. La Jackson (e con lei il regista Wise) non si sarebbero mai sognati di farlo. L’autrice non ha mai parlato di fantasmi. O meglio, nel suo romanzo se ne discute molto. Il professor Montague (il nome è un chiaro omaggio a uno degli scrittori più geniali di Ghost Story inglese, M.R. James) nomina spesso gli spettri e le case infestate (lebbrose, dicono nella Bibbia), ma poi, guardando ai fatti nel romanzo non ci sarà mai alcun volto scheletrico ghignante, né occhi bianchi che avanzano dall’ombra o braccia scheletriche pronte ad agguantare stinchi da sotto il letto. I fantasmi di Hill House potrebbero esserci oppure no. Di sicuro una volta usciti da lì non li avremo visti noi. O forse sì, proprio sotto al nostro naso.
Stephen King ha scritto pagine molto interessanti su La casa degli invasati, nel suo saggio Danse Macabre, e ha anche ammesso il proprio debito con il romanzo della Jackson (sia come fonte di ispirazione per Casa Marsten, ne Le notti di Salem, che l’Overloock Hotel in Shining), ma non cita Carrie. Eppure la tempesta di pietre di cui si parla, riguardo Elenanor, è usata para para nel primo romanzo dell’autore per introdurre la natura paranormale della sua giovane protagonista. E dato che in Carrie si parla chiaramente di poteri telecinetici, ecco suggerita la spiegazione più plausibile riguardo i misteri della casa di Hill House, secondo King. I rumori, i colpi, le scritte sui muri, sono frutto della mente disturbata (e telecinetica) di Eleanor, in fuga da una sorella avida e insensibile e dai sensi di colpa per aver trasgredito al suo diniego di andare in vacanza, rubandole pure la macchina. Senza contare il più grosso trauma in mezzo a cui la ragazza vorrebbe porre una distanza di sicurezza: lo spettro metaforico di una madre morta dopo una lunga malattia e che lei ha accudito senza speranza nei migliori anni della propria vita.
La casa di Hill House è malevola, paziente, spietata, fagocitante, ma non è infestata. Gli invasati del titolo, i pazzi, non sono messi a sproposito, come gli stessi Invasati usato per il romanzo di Jack Finney (da cui Siegel trasse il film L’invasione degli Ultracorpi). Qui parliamo di follia. E la follia è il solo fantasma che regna a Hill House. La casa attacca la mente. E sceglie Eleanor perché, come possiamo capire già dai primi capitoli (quelli in cui la Jackson ci racconta del suo arrivo a Hill House dopo un lungo viaggio in auto, sola con le proprie fantasie), la ragazza vive in un mondo proprio in cui le fantasticherie, le immaginazioni, rappresentano qualcosa di più che banali esercizi mentali per sfuggire alla noia.
Mai come in Hill House è fatale il ruolo di un traduttore. Ricordiamo innanzitutto quello che scrisse George Simenon riguardo tale fenomeno letterario: all’inizio fu malvisto e dileggiato, poi accettato e infine riconosciuto come motivo di vanto e prestigio. Un buon lavoro di traduzione è prezioso, no? E in La casa degli invasati è addirittura fatale. In particolare sono due i momenti decisivi su cui bisogna essere miracolosi. Il primo è l’incipit straordinario. Nello specifico la conclusione di questo Incipit. Vi assicuro che non c’è traduzione che lo riferisca allo stesso modo. Nell’edizione che ho letto io, e da cui sono partito per scrivere questo articolo, conclude così: “Il silenzio gravava perenne sul legno e sulle pietre di Hill House e qualunque cosa vagasse sin lì vi andava sola”.
Io conoscevo già l’incipit della Jackson ma non certo in questo modo. Soprattutto la chiusa. Dire qualunque cosa vagasse “sin lì” è fuorviante, perché sembra significare “chi volesse andare lì” (e non qualunque cosa “sia già lì”) ci andava per conto proprio. Sembra come a dire: se qualcuno fosse abbastanza pazzo da aggirarsi intorno a Hill House, vi andrebbe per conto suo. Nessuno lo seguirebbe. Un po’ come cercar rogna intorno al Castello Dracula. Mentre la Jackson, di questo sono certo, intendeva riferirsi alla “cosa” dentro il Castello.
Nel film di Robert Wise del 1963 la traduzione è ancora più vaga e deleteria: “Qualunque cosa si muovesse là dentro, era di natura misteriosa”. Ma dai? Davvero era una roba misteriosa? E grazie al piffero che lo era!
Sentite invece la traduzione riportata in un vecchio librino sulla letteratura horror uscito in allegato a un albo annuale di Dylan Dog: “Saldamente il silenzio che giaceva contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa camminasse là dentro, camminava sola”. Qualsiasi cosa sia dentro quella casa sinistra, vi si aggira da sola. Cazzo, trovatemi una frase così potente in altri 70 anni di letteratura horror!
Il concetto associato a Hill House e il male che vi risiede è collegato a un sentimento di grande inquietudine, malinconia, dannazione. Lo spettro della casa, o quello che è, vaga solo, mosso da un’eterna brama cieca, nella tipica natura dello spettro: fa quello che la sua fantomatica natura gli dice di fare, vaga e attende, cerca e accoglie. Eleanor arriva con il suo bagaglio di sogni infantili e solitudine estrema e sarà lei che Hill House sceglierà come vittima ideale o se volete, nuova “amica” da fagocitare entro le proprie mura. Il profilo malinconico e patetico di Eleanor è speculare al demone che nutre la stessa Hill House. Non ci sono mostri cruenti (“i fantasmi non hanno mai fatto male ai vivi”, dice Montague a futuro erede di Hill House, lo scettico e damerino Luke) ma c’è qualcosa di profondamente triste e solo. E questa tristezza e solitudine però generano invidia, malignità sottile e tormentosa verso chi non è solo e non è condannato al perenne ghiaccio della morte.
A tal proposito ecco il secondo momento che, nella traduzione, a seconda dei casi, assume significati diversi. A un certo punto qualcuno o qualcosa scrive su un muro una frase. Gli ospiti della casa si dichiarano tutti innocenti e più degli altri c’è Eleanor a sostenersi estranea a un simile scherzo. La scritta nel film dice in modo diretto e inequivocabile: “Torna a casa, Eleanor!”. Perentorio, minaccioso, quasi. Nel romanzo pubblicato su Inverno Horror 1993 dalla Mondadori invece è: “Aiutate Eleanor a tornare a casa”. Quasi patetico, altruistico, lascivo anche. E senza dubbio molto più inquietante, vi pare? Ma molto meno preciso. Ovviamente: “Torna a casa Eleanor!” sembra una materializzazione dei sensi di colpa della protagonista, in fuga dalla famiglia, una diserzione grave, dopo anni di devota presenza al capezzale della vecchia mamma. E la vecchia è usata da Hill House per spaventare Eleanor e smascherarne l’inferno agli occhi dei suoi compagni d’indagine e amici. Mentre a come la mette la Jackson (e chi la traduce per la Mondadori per l’edizione che ho io) bisogna “aiutare” Eleanor a tornare a casa”.
Stephen King è quasi convinto che la richiesta sia di Hill House e non di uno spettro materno materializzato dai sensi di colpa. La casa in cui Eleanor deve essere aiutata a tornare è dove lei già si trova. Eleanor è lì per un motivo ben preciso. Si trova non In The House but At Home!
Hill House ha scelto il proprio bocconcino sacrificale e la protagonista accetterà di “restare”. Che la sua volontà sia vista da Montague e gli altri come il chiaro segno di uno squilibrio mentale dovuto al forte stress del soggiorno nella casa a noi non interessa. Sappiamo che c’è qualcosa di predestinante nel fatto che Eleanor sia lì. E in questo la serie di Falangan è assai più fedele al libro di quanto sembri. Corsi e ricorsi. La casa come un guado temporale in cui vecchi spettri reincarnati devono riconsegnarsi alla propria galera. Non è un caso che Eleanor somigli tanto alla dama di compagnia che si impiccò in cima alla scala della biblioteca. Se pensate che tutto ciò che sto dicendo sia solo un mega spoiler, posso assicurarvi che non c’è spoiler che tenga a rendervi meno spaventoso il soggiorno a Hill House.
Il punto è che non c’è una vera e propria soluzione al problema di Hill House. Ce ne sono varie. Nessuno vi dice in quale “dovreste” credere. E probabilmente voi sceglierete la più inquietante di tutte le soluzioni. Perché Hill House non usa spettri posticci buttati negli armadi e sotto i letti, lei usa la vostra mente.