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Il nuovo Metal Church? Dannato… chi se lo perde!

Padre Cavallo mi ha chiesto se avevo voglia di scrivere qualche recensione, cosa che già mi ha fatto felice come un quindicenne in un sexy shop. Mentre commosso aderivo con fervido trasporto egli, non pago, mi ha annunciato che il disco da recensire sarebbe stato l’ultima prova dei Metal Church.

Ora, è difficile spiegare la mia passione per questi ragazzacci americani che adoro da tempi in cui molti di voi lettori (temo) non avevano ancora visto la luce, quindi eccomi a raccontarvi l’accaduto durante l’ascolto. Passate le palpitazioni, la vistosa erezione all’idea di parlare dei signori della Chiesa del Metallo in luogo diverso dal pub dopo la terza media rossa e dopo essermi ricomposto nel mio abito talare borchiato, appositamente indossato per cotanta occasione, mi fiondo sul materiale.

Ovviamente sappiate che sto parlando di un gruppo che seguo dai tempi del loro disco omonimo (con quel mostro del palcoscenico che era David Wayne alla voce R.I.P.) e che ho visto dal vivo diverse volte restandone molto ben impressionato, quindi ammetto di partire con il piede giusto nel giudicare Damned If You Do.

Ascoltando l’ultima fatica di casa Metal Church, devo dire che le sensazioni vissute da un vecchio fan della prima ora sono tante, positive e piacevolissime. La sensazione che pervade al primo ascolto, già dalla title track che apre l’album, è che questi signori abbiano trovato il modo di sfornare un disco in cui poter sì rispettare tutti i canoni del loro primo periodo ma integrando quello spirito nel presente.

Damned If You Do (il pezzo) suona limpido, complesso e sciorina cori anthemici nel perfetto stile della band. Ammetto di essermi lasciato trasportare in un vortice di goduria che mi ha spinto a scapocciare davanti alle casse come se mi fossero ricresciuti i capelli e tornati i brufoli.

Proseguiamo con The Black Things, che comincia con un arpeggio di chitarra ed un ritmo quieto ma che cresce d’intensità nel corso dei suoi oltre cinque minuti di durata. Non male ma un po’ di rabbia in più avrebbe giovato.

Un giro di batteria ci lancia in By The Numbers, che arriva a riportare la soglia adrenalinica a livello di sudorazione aumentata e sorrisetto demente del metallaro con le cuffie. Ritmo sostenuto ed ipnotico, Stet Howland alla batteria che fa davvero un gran bel lavoro. Mi vien voglia di pogare con l’armadio, buon segno.

Revolution Underway  è il pezzaccio da classifica, ad ampio respiro che ben si presta ad essere canticchiato nei secoli dei secoli. Segue Guillotine, secondo me perfetta per essere eseguita dal vivo, con un paio di cambi di tempo interessanti e che nell’insieme non annoia mai, grazie al riff massiccio e la trascinante voce di Mike Howe. 

Anche la successiva Rot Away mantiene e conferma il carattere deciso del disco, tre minuti da picchio duro che lasciano poi il testimone al pezzo che, tra tutti mi è piaciuto meno. Into the Fold, risulta davvero moscetto e stiracchiato. Ci pensa però Monkey Finger a rimettere a posto le cose. Esemplare di metallo sano e genuino, con chitarre che fanno il loro sporco lavoro e ci ricordano che questa è fieno di primo taglio signori, mica crusca e fichi.

Neanche il tempo di dire bella che ecco Out of Balance a deliziarci le gonadi. Pezzone senza fronzoli, da ascoltare e riascoltare, una garanzia che, dopo tutte le vicende passate, i Metal Church sono ancora loro, non si sono snaturati come altri (non ho detto io Metallica, smettetela) e sono sempre i nostri onesti mattatori del palcoscenico.

Ma non è mica finita. A chiudere l’album c’è il brano migliore del lotto: The War Electric, una energizzante tirata di quattro minuti in cui il lavoro dei due chitarristi Vanderhoof e Rick van Zandt sostiene il pezzo facendolo filare come ‘na di catapulta, firmando a calce il contratto tra i Metal Church ed i loro fan, vecchi e nuovi.

Bella mazzata (dal sapore “anni ruggenti”) davvero, vi farà saltellare sulle poltrone, sperando di avere presto la possibilità di buttarvi nella mischia al primo concerto dalle vostre parti.

Damned If You Do mi ha ricordato perché ho sempre ascoltato i Church con piacere. Molti altri gruppi sono risultati più graditi ad un pubblico più ampio del loro, ma la chiesa del metallo non tradisce i propri fedeli neppure questa volta e si riconferma come gruppo valido e coerente!

Su testi e copertina non mi esprimo, sono i Metal Church in tutto e per tutto, quindi godiamoceli e basta polemiche gente, qui non ci sono vie di mezzo. E poi io sono quello che, se la faranno, la t-shirt con l’artwork di questo disco la comprerà subito, lo confesso: il prete con corna ed apocalisse alle spalle, che si intravede dalle finestre in stile gotico, mi fa morire.

Questa band, pur con fasi alterne di gloria e caduta (si sono sciolti e riformati almeno due volte nel corso degli anni) continua a tenere banco nel genere e mi auguro che non smetta mai di sfornare dischi come questo.
Dannato… chi se lo perde!