Con Esercizio numero 6 Siamo al secondo episodio di questa minisaga sulla Meteora e già vengono fuori le magagne. E sorprende che a farcele vedere sia la più brillante degli sceneggiatori della serie: Paola Barbato. Io adoro le sue storie, di solito, ma ammetto che non sempre tutto vi fila liscio. Paola ha un problema che sembrava ormai superato: è prolissa. Scrive troppo. Non ha questa fiducia smodata nelle immagini, deve spiegare a parole. Lei è una narratrice tradizionale, autrice di romanzi e racconti e questo capita se ti cimenti con un medium diverso dalle tue inclinazioni naturali. In Esercizio numero 6, Paola non sembra avere abbastanza spazio per la sua storia. Ci sono momenti in cui tutto è confuso, si fatica a seguire il filo e questo accade quando è pura azione, e altri, la maggior parte delle 98 pagine, in cui gli spiegoni non finiscono più. I rimandi a Serrador e Wyndham, i bambini mostri e come si può riuscire a ucciderli, superando il loro aspetto innocentino, andando contro la prima legge naturale, quella della perpetuazione della specie, non sono così necessari perché se in fondo c’è di mezzo una versione sfigata della scuola X Man e un momento decisamente crudele, per gli standard dylandoghiani recenti, in fondo non è il fulcro della storia, questa cosa dei piccoli bastardi assassini, come non lo è la cometa.
L’impressione infatti è che Esercizio numero 6 avrebbe potuto essere un qualsiasi albo di Dylan Dog e che per metterlo in questo “ciclo”, abbiano fatto una sorta di cornice sulla faccenda della cometa. Mentre la cometa arriva, l’indagatore indaga. Sì, il meteorite è connesso con i guai alla scuola per ragazzi paranormali, ma in modo piuttosto marginale. Ecco perché alla Barbato non basta lo spazio: ha dovuto sacrificare una serie minima però necessaria di pagine per infilare la sua storia nel minestrone della Cometa, e quindi è stata costretta a usare lo spazio restante per raccontare quello che aveva da raccontare. Sembra che a lei della cometa interessi punto. La accoglie nella sua casa narrativa, la tollera, ma questo la costringe a sintetizzare troppo il resto, con la conseguenza del caos e degli spiegoni per recuperare e dare bene a intendere allo spettatore come riordinare il proprio cervello in mezzo a quel caos.
La continuity bonelliana è come la doppia cassa di Nicko McBrain, ma questa la capiscono solo i metallari. Diciamo per il resto dei cavalli in lettura che per quanto ci sia un piccolo esercito di giovani che vorrebbero “ringiovanire” Dylan Dog, è la Bonelli che invecchia loro. Come la RAI. Chiunque ci vada finisce per sembrare più anziano e appesantito, nonostante venga magari da youtube.
E poi i disegni di Freghieri. Con tutto il rispetto, a me piacciono ma in questo contesto li trovo davvero antiquati. Freghieri è una vecchia Fender del 1952, non ci si può fare death metal. Per la dimensione narrativa della meteora occorreva anche una rottura stilistica nelle immagini. E invece siamo al solito. C’è proprio il terrore di condurre i fedeli lettori di Dylan Dog in un ambiente che non sia comunque famigliare. Freghieri poi non ha mai funzionato in un contesto londinese, britannico, internazionale. I tratti dei visi che disegna fanno pensare all’Italia rurale. Era perfetto in Orrore nero, infatti. Dylan disegnato da lui sembra un pischellone meneghino e tutti gli altri personaggi ricordano dei contadini. Sono convinto che Freghieri saprebbe disegnare alla grandissima la vicenda di Sara Scazzi e zio Michele ma non Blade Runner.
E poi basta con sta storia che Dylan Dog non sa usare lo smartphone. Per carità, anche mio padre che è del 1947 ha difficoltà a mandare messaggi vocali con wazzap, ma a furia di provarci ora li manda. Possibile che uno intelligente e caparbio come DD sia tanto scemo da non saper mettere google maps? Va bene l’impatto traumatico all’inizio ma alla fine, fategli un favore, zitto zitto, dategli modo di usare questa cazzo di roba elettronica, altrimenti finisce che sembra un coglione, non un disagiato istintivamente ribelle all’omologazione psycho-nettiana.
Carino ma un po’ ostentato l’omaggio a Fulci (e decisamente in ritardo). Ormai chi non ha omaggiato Fulci? Mancavano Marzullo e la Bonelli. Mentre la citazione musicale di Recchioni sul brano dei Beatles, Revolution 9, è interessante, ma sarebbe stata più fica inserita poi anche nel racconto. E invece, come sempre, anche stavolta Dylan Dog è senza musica. Questo perché probabilmente alla Barbato non interessa usare strofe di canzoni e rimandi musicali per raccontare qualcosa. A lei servono più gli spiegoni.