The Crypt Injection II (Non Serviam) è un disco dei Dawn Of Ashes (2019), recensito da Chiara Pani con tutti i crismi.
L’aggrotech – ossia “aggressive techno” – è termine che, come ogni definizione, accorpa band in apparenza molto simili tra loro. In apparenza, poiché se si scava più a fondo, i tratti distintivi sono molteplici. Kristof Bathory (altisonante pseudo di Christopher Heath) è deus ex-machina dei Dawn of Ashes, ensemble losangelino formatosi nel 2000.
Questo The Crypt Injection II (Non Serviam), uscito lo scorso 18 gennaio per la Metropolis Records, è disco ambiziosissimo, quasi un concept album: giunge a ben 11 anni di distanza dalla prima parte, The Crypt Injection, del 2008, segnando un ritorno alle sonorità techno-industrial degli albori della band.
I Dawn of Ashes, infatti, hanno subito negli anni diversi rimaneggiamenti, annunciando nel 2008 una nuova line-up e un passaggio dall’elettronica al black metal melodico, per poi sciogliersi nel 2013 e riformarsi nel 2016. Il secondo capitolo di The Crypt Injection è una rinascita segnata dal fuoco nonché una summa dei 19 anni di attività della band: un disco squisitamente malvagio e malevolo, che mescola la cupezza del black metal meno di nicchia con le sonorità violentemente danzerecce tipiche dell’aggressive techno.

La copertina è una dichiarazione di intenti, nel raffigurare un infuocato Qelipot, che nel misticismo ebraico rappresenta le forze spirituali impure e maligne. Bathory (che è leader e produttore della band) non ha mai fatto mistero della sua passione per l’esoterismo e l’occultismo di matrice “nera”, fedele seguace e portavoce della “Via della Mano Sinistra”, che accentra l’uomo come divinità di se stesso invece di spostare il divino in un’entità esterna.
La traccia di apertura, la marziale e cupa Thirtheen Chants to Lilith, contiene la registrazione di un rituale a Lilith, che si avverte in sottofondo dietro alla pesante scorza industrial e che promette un viaggio inquietante, più che un semplice ascolto di un disco.
Sitra Ahra è una delle punte di diamante dell’album, legata anch’essa a doppio filo al concetto portante del Qelipot, le cui liriche sono basate sull’opera di Kenneth Grant, allievo di Crowley nell’O.T.O., seguita a ruota dalla potente Slaves of Addiction e da Non Serviam (il rifiuto di Lucifero di servire in Paradiso).
Hexcraft merita un discorso a parte, frutto della collaborazione col grande Johan Van Roy dei Suicide Commando: solenne, marziale e spietata, intontisce e spiazza.
Ci si trova davanti a un disco che dice molto più di quel che sembra, che dietro alle sonorità non troppo originali (forti sono i rimandi a bands come Tactical Sekt e Aslan Faction) e danzerecce porta avanti un discorso filosofico non comune in questo tipo di band.
Sia chiaro, l’aggrotech non disdegna l’esoterismo e l’occultismo ma la tendenza principale è più la violenza che altro, il legame strettissimo col cinema horror (caratteristica saliente anche dei Dawn of Ashes), il tirare fuori (e far tirare fuori a noi che ascoltiamo) pulsioni oscure e soffocate dalla repressione del vivere sociale.
The Crypt Injection II è disco crudele, che avvinghia come un serpente (The Serpents of Eden) di una malvagità seducente, una bellezza del Male che emerge tra suoni in apparenza già sentiti. Opera ambiziosa con le sue 11 tracce (19 nella versione deluxe, in cui spiccano ospiti remixatori di lusso tra cui Chris Vrenna e Hocico) della durata media di 6/7 minuti, violente e a tratti insostenibili, con la voce urlata e stregonesca di Bathory, minacciosa come una maledizione.
Un disco da ballare come in una danza infera, una celebrazione a qualche divinità oscura, un votarsi al Maligno non tanto come entità quanto come la parte di noi che dobbiamo nascondere, reprimere e opprimere. Da ascoltare più e più volte per poterlo assimilare a dovere, e per iniettarci quell’energia venefica che ci rende sempre un po’ più forti.