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Gli Evergrey sono i Lindt del metal!

The Altantic è il nuovo album degli svedesi Evergrey, recensito da Frank.

Sin dai loro esordi (si parla quindi della seconda metà degli anni 90) gli Evergrey si sono imposti all’attenzione della scena e hanno realizzato più di dieci album senza mai accusare cali d’ispirazione o altre cagate. Dritti come un bel pene di quercia nella fessa di madre natura, la band svedese ha sempre dato l’impressione di dover germogliare nelle nostre orecchie, alla stregua del canto degli uccelli e i rutti di zio Pasqualone (che dio l’abbia in gloria). Probabilmente il loro secondo album (ma il primo con cui credo il mondo li abbia veramente conosciuti) Solitude, Dominance, Tragedy rappresenta ancora oggi una perla di impareggiabile luminosità e levigatezza, se vogliamo proprio scrivere come dei gay. Evergay! Ok, l’ho detto e ora proseguiamo.

Incredibile come gli Evergrey siano riusciti fin da subito (intorno al 98) a mettere in chiaro chi erano, cosa facevano, e dove volevano andare. La fortuna di poter contare su un leader come Tom Englund non è cosa da tutti: il signorino con l’aria da chierichetto in punizione, ha un timbro corposo, come quei vinelli rossi da tragedia romantica di Edgar Poe, quando c’è da cavalcare qualche riffone aggiunge una scorzina di catarro capace di renderlo autoritario e plumbeo ma se vuole, gli basta darsi una schiarita e con la sua voce apre il cielo a qualche sparata laser di sol invictus.

E in The Atlantic dimostra fin da subito di che magia è capace. Non voglio fare un track by track ma credo si debba menzionare assolutamente l’iniziale A Silent Arc, pura e maestosa mazzata gengivale; All I Have, che comincia sprofondandoci in una fossa di riff assatanati e poi ci raccoglie e ci spara in bocca al cielo di un ritornello che lo mette in culo a qualsiasi tentativo emozionale in chiave di violino di tutto il 2018. Tené. E poi c’è This Ocean, che randella e pompa il sistema circolatorio fino a farci schiumare come ronzini disabituati alle scorrerie lanzichenecche ma così pungolati dal pezzo che neanche un frustino chiodato per il furetto dei Dimmu Borgir. Ma cavoletti, tutta la tracklist di The Atlantic si assesta su livelli che vanno dal buono all’eccellente.

La cosa bella degli Evergrey è che hanno questo modo di comporre molto Göteborg, e noi sappiamo bene cosa è successo da quelle parti, a Göteborg qualche anno fa: sapete no, ritmi cupi, riffoni serrati, drumming patapanteroso, chitarre taglia e sfregia e melodie epiche da battaglia campale nella ludoteca del male, ma la firma vera di questa band, degli Evergrey, è quell’aprirsi, sopratutti nei ritornelli, quel dare respiro alla canzone, usando la duttilità espressiva della voce di Englund e portare così l’ascoltatore a un altro livello del consapevole.

Che tesori, vogliono sciogliere i cuori del metallaro rude. Ecco: gli Evergrey sono i Lindt del metal: duri fuori con la scioglievolezza dentro.