La recensione del numero 389 di Dylan Dog, La sopravvissuta.
Come dicevamo già, a proposito del numero precedente Esercizio numero 6, la continuity dylaniata non è davvero una continuity. La faccenda del meteorite che casca (di per sé un’idea piuttosto scontata e che butta tutto in caciara sperando di fare tabula rasa, magari restituendoci un indagatore dell’Incubo in versione Mad Max, senza telefonia mobile e tutta quella tecnologia che riduce DYD alla stregua di un inguardabile coglione analogico) è una finta.Insomma, la meteora non è una storia unica, dove ogni albo è una puntata. La meteora è una cornice che racchiude la classica struttura episodica (invero piuttosto sciapa, da qualche numero in qua) in cui Dylan fa sempre Dylan. Incontra la bella, se la porta a letto, indaga, non capisce un cazzo, capisce tutto, perde la bella e torna a casa dove Groucho lo riempie di cazzate.
Recchioni ha solo tolto Bloch dalla routine, inserendo quel duo insopportabile: lui è un concentrato di luoghi comuni da film poliziesco anni 80 (Carpenter) e lei pare un rimasuglio dell’universo Loachano anni 90 (la tipa iraniana col velo, intendo). Non solo mostrano una simpatia pari a un cazzo premuto insistentemente sulla vostra tempia mentre cercate di concentrarvi su un problema di matematica che non vorreste nemmeno tentare di risolvere, ma trasmettono un’umanità e suscitano un interesse narrativo degni di due poliziotti morti all’inizio della storia. Solo che loro vivono e vivono e vivono. Spero che la meteora li faccia fuori. Ma ne dubito.
Andando a esaminare nel dettaglio l’episodio La sopravvissuta di Barbie Baraldi, con tutto il rispetto ma è robetta. Ha quel crossover tipico degli anni recchionici, in cui si vuol fare cose “moderne” ma si finisce solo per mostrare quanto a Bonelland tutto sia ormai così vetusto che nemmeno Xabaras potrebbe riesumarlo.
Ecco a voi la Final Girl. Sapete cos’è? Se non siete vissuti nella serie di Dylan Dog negli ultimi trent’anni, dovreste conoscere il saggio di Carol J. Clover Man, Women & Chain Saw. Si tratta di un saggio sul cinema horror tra i più interessanti (e che ovviamente nessuno si è preso la briga di tradurre e pubblicare in Italia) che ha introdotto il concetto di Final Girl. Non fatemi spiegare cosa sia. Ma come? Eh va bene, ve lo dico. Si tratta della fighetta verginale di un qualsiasi slasher movie. Voi la dareste per spacciata dopo dieci minuti e invece, al termine del film è l’unica che non muore, anzi si mostra una dura e ammazza il serial killer mascherato. Ok?
Ora: invece di intitolare l’episodio La final girl, come era giusto che fosse, avviando un precedente rivoluzionario in casa Bonelli, vale a dire l’uso di una parola “nuova” in un titolo, la casa editrice di fumetti ha optato per una traduzione italiana che non centra nulla col vero senso del termine originale, e mette le cose su un piano più sempliciotto: La sopravvissuta.
Final girl non vuol dire sopravvissuta. Non è la stessa cosa. Altrimenti la Clover la chiamava Survivor Girl, porcaputtana! Va beh, in fondo c’è poco da lagnarsi, anche con un titolo molto più “moderno” e “al passo”, l’episodio sarebbe stato una cosa da poco.
Per renderlo parte della continuity, alla Baraldi e a Recchioni sembra sufficiente far cadere delle pietre infuocate dal cielo in un momento in cui la cosa non centra nulla e poi aggiungere in coda un dialogo enigmatico tra la Regina d’Inghilterra con i tentacoli alla Chtulhu e il tipo gomblottaro, coso lì, John “Er Pomata dell’apocalisse” Ghost, mentre dicono cose enigmatiche e alla fine scopano come al primo fotogramma di un hentai qualsiasi.
Tra le citazioni musicali c’è una canzone degli AC/DC (come al solito i rimandi al mondo del rock, per quanto via via più frequenti, sono così prevedibili e sputtanati che sembrano gestiti da Virgin Radio) mentre il cattivo, che in copertina è una versione alt della fantasima in quella Urania del romanzo Io sono Helen Driscoll di Richard Matheson
il famigerato “testa di morto”, il villain della storia, pare Eddie degli Iron Maiden.
Si vorrebbe rimandare a qualche contesto artistico diverso dal fumetto, e le strizzate al metal sono ricorrenti, ma lo si fa in modo che democristianamente tutti possano coglierlo e nessuno gustarsi davvero la chicca, l’arricchimento. Perché una volta, Sclavi tirava fuori degli agganci culturali che spingevano il lettore ad approfondire. Qui invece le citazioni sembrano più ammiccamenti a un pubblico che già sa e a cui non si vuol dare noia.
La gestione Recchioni è sempre più gattopardiana e solo perché ho la certezza che lui non si perda nessuno dei miei sproloqui, standoci male ogni volta un paio di minuti dopo averli letti, io continuo a seguirla e stroncarla, ma se fossi un lettore redivivo che si è fatto accalappiare con promesse di ritorno alla durezza degli inizi e lo sperimentalismo ammodernante del cambio di guardia Recchioniano, da mo’ che avrei smesso di buttarci i soldi.
Oh, poi ragazzi, ditemi una cosa: 3 euri e 50 e la qualità dei disegni e persino della carta sembra quella di un giornaletto. Sbaglio?