Shadow Work è l’album postumo di Warrel Dane, uscito nel 2018 e recensito per noi da Michele Marando.
La bellezza di 29 anni fa scoprivo i Sanctuary, una band di Seattle che nei suoi due album (Refuge Denied e Into The Mirror Black) mischiava Queensryche, Judas Priest e una spruzzata di thrash. Non il “solito” metal dell’epoca, c’era qualcosa di unico nel loro sound e ne rimasi folgorato. Su tutti svettava lui, Warrel Dane, un cantante capace di acuti spaventosi ma anche di notevoli registri bassi e un carisma fuori dal comune. Per dirne una, lo consideravo uno dei pochissimi eletti che avrebbero potuto sostituire degnamente Rob Halford nei Priest.
Dalle ceneri dei Sanctuary nacquero poi i Nevermore, ben più celebri e autori di album eccellenti come Dead Heart In A Dead World. Col passare degli anni, però anche i Nevermore si sono un po’ persi per strada e quindi ci siamo ritrovati con la reunion degli stessi Sanctuary e con la promessa di un secondo album solista per Warrel Dane.
Qui arrivano le note tristi: Warrel Dane non c’è più, è scomparso a causa di un infarto poco più di un anno fa in Brasile, proprio durante le registrazioni di Shadow Work. La tragedia e la conseguente decisione della band e del produttore di pubblicare il lavoro fatto fino a quel momento, lo rendono un album difficile da inquadrare e da comprendere.
Shadow Work è incompleto e si capisce fin dalla presenza di sole 7 canzoni più intro; è un disco assemblato a posteriori sfruttando le parti vocali registrate da Dane prima della sua morte.
Ci sono note positive ma altre decisamente deludenti, su tutte la produzione che segue la scia di gran parte del metal cosiddetto moderno: bassi a manetta, batteria fintissima, chitarre ritmiche in assoluto primo piano che vanno a coprire le parti soliste e ahimè, la voce. Già, perché quello che distingue questo disco da migliaia di altri è proprio la voce inconfondibile di Warrel Dane, appesantita dall’età e dagli eccessi ma sempre unica, personale e carismatica.
Una delle parti più belle è l’intro, Ethereal Blessing, evocativa e dalle forti tinte orientali.
I primi due brani veri, Madame Satan e Disconnection System aggrediscono con ritmiche sostenute e ritornelli più riflessivi e melodici, di fatto uno schema che si ritroverà un po’ in tutto l’album. Anche se l’influenza dei Nevermore è palese in queste canzoni, si sente che manca quel quid che le avrebbe rese grandi.
Sorvolando sulla cover di Hanging Garden dei Cure, tramutata in una sfuriata post thrash praticamente irriconoscibile, è invece Rain il pezzo a convincere di più: una sorta di ballad sofferta, quasi drammatica, in cui il “wall of sound” si dirada quel tanto che basta a far risaltare l’interpretazione vocale.
Alla fine di questi 40 minuti non mi è semplice esprimere un giudizio. Se dovessi considerare il prodotto finito senza sapere chi lo ha suonato e cantato, parlerei di un disco dignitoso ma non straordinario, con qualche buono spunto ma anche tante parti interlocutorie e un sound troppo pesante e stereotipato.
Conoscendo invece la storia che ha portato alla pubblicazione di Shadow Work, non si può che essere grati alla band (Johnny Moraes, Thiago Oliveira, Fabio Carito e Marcus Dotta), al produttore Wagner Meirinho e all’illustratore Travis Smith, per aver deciso di pubblicare comunque ciò che era stato registrato, anche se si trattava di materiale grezzo o incompleto.
In buona sostanza, se Shadow Work viene visto come un tributo a un grande cantante, allora assume tutto un altro valore e chiunque abbia ammirato Warrel Dane dovrebbe almeno considerarne l’ascolto.
R.I.P. Warrel!