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2011-2019
Stavamo dicendo di The Final Frontier e di Book Of Souls. Non vi posto le copertine perché le conoscerete a memoria.
Il primo è per me il meno riuscito degli album della band dopo la reunion. Curiosamente in The Final Frontier, funzionano meglio le composizioni più brevi, anche se non sono nulla di irrinunciabile. Però va detto che i suoni sempre più corposi e convincenti restituiscono un po’ la gloria in quattro quarti dei vecchi tempi: El Dorado, The Final Frontier (il pezzo) pestano bene. Coming Home è un bel lento e probabilmente When The Wild Wind Blows è un altro picco per la band, sul piano narrativo e atmosferico. Seguite la vicenda narrata nel testo di questa coppia di svitati in attesa della fine del mondo e andate fino in fondo, liriche davanti agli occhi e musica nelle orecchie, non ve ne pentirete.
The Alchemist parla di John Dee, esoterista e matematico alla corte della regina Elisabetta I. Con lui continua la carrellata dickinsoniana dei “maghi veri” della Storia. Bruce ha scritto su Crowley e Blake nel suo periodo solista più riuscito, come già ai tempi di Seventh Son e pure prima con The Number Of The Beast: non è un caso che i rimandi ad Aleister e al 666 comincino proprio con il suo ingresso nella band. Sono sicuro che nel corso degli anni fuori dai Maiden, Dickey, abbia intrapreso un cammino spiritual-razionalista che l’ha condotto intorno a certi grimori polverosi e alcune zone mentali perigliose, del tipo che volare su un aereo non è nulla al confronto. Chiusa parente.
Book Of Souls invece è un ritorno in grande stile. Tadaaaan! Lo reputo il massimo risultato del dopo reunion, da tutti i punti di vista. Le canzoni sono davvero notevoli (If Eternity Should Fail è grandiosa e persino il singolo Speed Of Light spacca come non succedeva da una vita; The Wicker Man non conta, lì avrebbero potuto parodiare La canzone del sole invece di Running Wild dei Priest, e saremmo stati tutti contenti lo stesso).
La produzione è finalmente equilibrata e all’altezza di un grande nome; il gruppo poi restituisce al proprio pubblico il frutto di tante prove, spesso poco riuscite, di composizioni lunghe e “suitesche”.
Il brano definitivo dell’ultima stagione dei Maiden è di quasi venti minuti, si intitola Empire Of The Clouds, è interamente scritto da Dickinson (e non Harris) e presenta il piano, che suona Bruce stesso. Non esagero se metto questo pezzo in coda a Phantom Of The Opera, Helloweed, The Rime e Sign Of The Cross.
A livello di testi, su Book Of Souls, per Bruce siamo ai vertici e ai ehm “davvero niente male” per Harris. Quanto ai cantati, qualche perplessità devo ammetterla come non mai. Allora, Dickinson, nel corso degli anni, sia al tempo della promozione di Fear Of The Dark che poi durante la stagione solista, ha lagnato la difficoltà e la scomodità di cantare sui pezzi dei Maiden.
Ha detto, sorprendendo un sacco di gente, che lui spesso si era sentito in imbarazzo a cantare in quei modi rocamboleschi e forzati cavalcate e riff su cui era quasi impossibili adattarci una linea vocale. La gente non gli ha potuto credere. Però vi chiedo di fare una cosa. Andate su you tube e cercate la versione dal vivo di The Red And The Black.
The Red And The Black è una tortura per chiunque voglia provare a cantarla, basta vedere il clip dal vivo al Wacken. Ce la fa Dickinson ma solo perché è una bestia umana. Il brano nell’insieme è prolisso, ok, e questo perché Bruce deve riprendersi e ha bisogno di diversi minuti per farlo. Infatti mentre la band infila tutti i fraseggi e le melodie da cantare in coro, lui sparisce e va a farsi una pera (nel senso del succo) prima di tornare sul palco e spremersi i testicoli ancora un po’.
E tutto sommato, vedere la versione live di The Red And The Black è davvero spettacolare e istruttivo. Questa è la prova che la band pensa ai live quando incide ma non tanto per racchiuderne la potenza in studio, come va cianciando Steve Harris.
Ogni pezzo è concepito per lo spettacolo che seguirà sui palchi. Tre assoli, uno o due sipari a testa per ogni chitarrista, melodie su melodie da suonare tenendo occupato il pubblico con gli oooooh e oooooh, e questo al fine di permettere al baraccone intero di continuare a muoversi e recuperare ossigeno, Bruce in primis, che dopo i cantati forzatissimi ne approfitta per riprendersi. Ecco quindi un intro e un outro con uno o due strumenti per far rifiatare i chitarristi, cori e melodie a iosa per far divertire e partecipare la gente come a una mega-festa.
Questa non è una band che scrive dischi, questa è una band che scrive live. E non è un caso che ogni album faccia seguire una registrazione dal vivo in CD e DVD. Negli anni i Maiden hanno sempre seguito il pubblico e mai la critica. O quasi mai. A volte sì, ma è stato peggio (Leggendaria quella volta che Harris si precipitò nella redazione di Kerrang! per pigliare a sberle il recensore che l’aveva stroncato).
I Maiden si sono sempre rapportati alla gente, perché poi è la gente che devono affrontare ogni volta. E quelli pagano i biglietti, sono migliaia, gridano il nome della band, e così via. Se visti come prove generali dei live, i dischi nuovi della band hanno davvero un senso. Un senso che si rivela quando si sta davanti ai palchi immensi, con il maxischermo e le scenografie e si finisce per coprire con la propria voce persino gli assoli dei chitarristi, altro che le strofe dei cantati.
A detta di Steve Harris, gli Iron Maiden faranno almeno un altro disco in studio, prima di pensionarsi. Potrebbero sorprenderci o chiudere di schifo. In ogni caso non sarà un disco solo, come dice lui. Ce ne saranno ancora e ancora degli altri e non è un caso che Dylan Dog usi Eddie per fronteggiare la sua meteora gattopardesca; dopo i Maiden la fine del mondo…