steve hackett
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STEVE HACKETT – Riccardoni di ritorno!

At The Edge Of Light è il nuovo album di Steve Hackett, uscito nel 2019.

Tormentata è la ricezione critica dei Genesis, differenziato il profilo pubblico dei loro membri più significativi. Peter Gabriel è stato a lungo il venerato maestro della ricerca musicale accessibile al grande pubblico e della world music umanitaria; Phil Collins il villain commerciale che in South Park si beccava la statuetta degli oscar nel culo; Steve Hackett quello rispettato nell’underground, il Jack Frusciante ante litteram che esce dal gruppo subito prima lo sputtanamento della fase American Psycho. Accreditato dai più come inventore del tapping, fa spesso date nei più austeri teatri della musica colta puntualmente segnalate dai quotidiani. Ma sfido chiunque a poter dire di aver ascoltato tutti e 26 i suoi album solisti.

Educato all’ascolto dei primi Genesis fin dall’infanzia, non ho mai soggiaciuto alla condanna di lontana ascendenza punk riservata loro da ampia fetta della critica musicale rock. Ciononostante, fino a quando stavo più addentro alla “scena” non mi sarei mai accostato neppure io a un disco nuovo di Hackett: sì ok, Dancing With The Moonlit Knight era una gran cosa, ma ormai questa è materia da Riccardoni, la roba nuova da ascoltare è altra. Ormai però io sono fuori dalla scena, anzi neppure esiste più una scena mi sa, quindi ci si può benissimo accostare a un disco come questo senza il timore di averlo fatto a scapito di altri più significativi. E non sarà una sorpresa rendersi conto che il tempo d’ascolto è stato ben impiegato.

At The End Of Light è uno di quei dischi modern-prog alla Steven Wilson (giusto per fare un po’ di confusione tra allievi e maestri) un po’ lunghi ma non troppo, tecnici ma non eccessivamente, ben prodotti seppur senza scarti dalla norma, con parti deboli ma altre assai belle.

Hackett è un chitarrista cui non interessa esibire i virtuosismi, se non inevitabilmente in qualche assolo dei pezzi più lunghi (Those Golden Wings). Le sezioni strumentali, che comunque si ritagliano ampi spazi, sono d’impostazione corale, incentrate sulle variazioni ritmiche e su suoni aspri e muscolari, alla King Crimson era- Lark’s… e Red, che generazionalmente per Hackett costituiscono di certo un punto di riferimento più pertinente che gli epigoni Dream Theater.

In canzoni come Beasts In Out Time e Under The Eye Of The Sun tali parti sono oggettivamente notevoli. Più discontinua la riuscita delle linee melodiche vocali, nelle quali Hackett si rivela debitore poco ispirato di vecchie armonie west coast.

In quest’ambito il solo pezzo con una sensibilità pop all’altezza è Hungry Years, la canzone più a tutto tondo del disco. Un disco che, prima di chiudersi con la mini-suite un po’ telefonata ConflictDescentPeace, che pare di averla già ascoltata solo a leggere i titoli, ci regala il sitar di Shadow And Flame, con cinquant’anni di ritardo su George Harrison ma va bene, non è male.

A rileggere la recensione mi rendo conto che forse ho evidenziato più i difetti che i pregi di un disco del quale in realtà volevo parlare bene; sarà perché la sua non necessità in effetti è difficile da celare, però a essere sinceri le sensazioni al suo ascolto sono state più di piacere che di noia. Magari non sono riuscito a esprimerlo bene, però vi assicuro che è così. “Steve Hackett? Perché no?/Son Riccardone, che male vi fo?”.