Facelift è un disco degli Alice In Chains, pubblicato nel 1990.
Facelift degli Alice In Chains uscì prima che Seattle diventasse l’epicentro mondiale del rock. In effetti nessun genere musicale come il grunge ha finito per dipendere così tanto da un luogo. Molto più di Los Angeles per il glam metal o la Bay Area per il thrash… o Birmingham per l’intera storia del metallo estremo.
Tutti questi filoni hanno visto esplodere band provenienti da altre città o addirittura da continenti diversi, mentre il grunge, divenuto un ingrediente in grado di influenzare l’alta moda, il cinema, il metal stesso, in fondo non ha mai potuto venir via da quei confini geografici. Una cittadina piena di studentelli artistoidi mai citata prima, se non per parlare di gente come Queensryche o Sanctuary.
Gli Alice In Chains esordirono per primi su MTV con il video (minimale e abbastanza noioso) di Man In The Box. In quel brano c’era già tutta la loro poetica, l’intero calderone di influenze, la mistura indefinibile che portò i critici di allora a pindarismi lessicali tipo Psychedelic Alternative Heavy Rock per dare una definizione approssimativa.
Facelift è indubbiamente acerbo, non un capolavoro impeccabile da cima a fondo, ma è un esordio che ancora pulsa, graffia e lagna sulla vita come un barbone ubriaco smanioso di tornare a strisciare appresso a un altro goccio. L’estetica born to die faster del gruppo divenne fin da quel pugno di brani iniziali una specie di spettacolo itinerante, esaltato dai giornalisti e consumato con ingordigia dagli spettatori. L’interrogativo sul gruppo non era quando sarebbe uscito il nuovo disco o notizie precise sul prossimo tour, ma quanto ci avrebbero messo a schiattare.
Le riviste intitolavano le sporadiche interviste con roba tipo Alice In Chains Destinazione Inferno! Punto esclamativo. In fondo è il rock and roll, giusto? Guardiamo tutti questi paladini folli e marci che corrono come treni vuoti verso la fine a tutta velocità, e per molti di loro siamo ancora qui ad aspettare.
Chi avrebbe mai scommesso che Ozzy sarebbe arrivato nel 1990? Chi si sarebbe sentito di assicurare che Alice Cooper, ridotto uno straccio fuori da una clinica per alcolizzati avrebbe trascorso gli anni 2000 a giocare a golf con qualche senatore o campione sportivo dal nome felino e una grave compulsione per la fica?
Eppure eccoli, sono ancora qui e non funzionano più come un tempo proprio perché alla fine non muoiono. Non se ne sono andati a schiantarsi contro la realtà. Ce l’hanno fatta. Gli Alice In Chains no. È vero, esiste ancora una band e gode artisticamente di buona salute, ma la line-up originale conta due caduti su quattro e questo fantasma che si aggira per i festival estivi, per molti fan è un fenomeno inopportuno, addirittura indecoroso.
Facelift è un disco quasi metal. Ci sono ritmiche, riff che avremmo potuto trovare su un disco degli Skid Row ma quello che traeva in inganno il popolo dello scapoccio facile era che apparentemente brani come We Die Young si muovevano su un quattro quarti pomposo e lascivo ma dopo l’impatto iniziale tutto finiva per sgretolarsi in una serie di linee vocali spettrose incentrate sulla morte e la sofferenza, non sul dare fuoco a una città o scoparsi la maestra.
Facelift però, rispetto al capolavoro Dirt è un disco dove la band ha ancora qualche barlume di vitalità: ci sono passaggi funky, arpeggi glam e un’impronta blues abbastanza classica. Il resto però è qualcosa di mai sentito prima. Gli Alice In Chains sono pesanti, cupi, crudi ma non si sa come definirli. Questo portò la band a fare da spalla ai nomi più svariati. Loro avrebbero potuto dividere il palco con Metallica, Guns o Jane’s Addiction. E ogni volta sarebbero stati fischiati.
Facelift è ancora oggi un album squilibrato. Le hit, i pezzoni, stanno tutti nella prima parte, mentre la seconda è composta di riempitivi e qualche pezzo notevole ma non immediato (Sunshine). Certo, la qualità è tanta, ma in realtà uno squilibrio vistoso c’è nella scaletta di tutti i loro dischi.
La band aveva questa capacità incredibile di imbroccare melodie pop straordinarie e infognarsi in passaggi jammosi reiterati e truculenti. Facelift è così. Ci sono dei momenti irresistibili, contagiosi e seducenti (Bleed The Freak) e altri che invece ci intossicano (Love, Hate, Love) lasciando tutti stordito in mezzo alla strada.
La dipendenza dalle droghe, i guai con la legge sono l’ennesimo spettacolo rock and roll. Nel caso degli Alice In Chains era come se distillassero in musica tutto lo schifo di droghe e vomito che era la loro vita. Facelift come anche Dirt, sono come bottiglie di vetro in cui la band è riuscita a intrappolare qualche demone. Una volta finito l’ascolto di questi album, come anche, ma in misura inferiore, Jar Of Flies e il Tripod Album, ci si sente spossati. Sembra di averci lasciato qualcosa, tra quelle canzoni, ogni volta.