L’angolo di Ste’ è una rubrica a cura di Stefano Giusti.
Sono passati quattro anni dall’ultima volta in cui sulla vecchia versione di Sdangher! mi sono cimentato con questa rubrica, nata fra uno scazzo e un ascolto casuale, un recupero inatteso e una delusione cocente o da una semplice discussione dal vivo o in rete su questo o quel gruppo, senza logiche precise ma assolutamente guidata dal puro istinto dell’ascolto e dallo scrivere di ciò che si è ascoltato, senza un perché o un motivo specifico. Ebbene, memore delle “centinaia di migliaia” di visualizzazioni della vecchia rubrica e a seguito dell’invito del buon Padrecavallo, c’ho messo circa cinque centesimi di secondo a rendermi ancora disponibile per il nuovo Sdangher 2.0, proponendomi anzi per ulteriori rubriche e approfondimenti che se solo trovassi il tempo di scrivere sarebbero interessantissimi… ma il tempo è sempre poco e tiranno, quindi bando all’ottimismo e vediamo cosa si riuscirà a fare.
Tanto per cominciare riallacciamo le fila su cosa era questo “angolo”, una sorta di “zibaldone” in salsa metal che prendeva le mosse dal bisogno/piacere di scrivere qualcosa collegato al mio insano bisogno di ascoltare musica: in macchina, a casa, in bicicletta, al supermercato… ovunque e con qualsiasi mezzo, l’importante è avere sempre qualcosa in sottofondo.
Questo bisogno, a metà strada fra il compulsivo e il patologico, rende possibile anche il passare allegramente dai Foreigner ai Dark Throne, dai Journey agli Autopsy senza ovviamente trascurare tutto quello che ci sta in mezzo e nel quale si arriva a scoprire un grande album che magari giaceva da mesi fra i cd ancora da ascoltare, qualche bel lavoro del passato passato in rassegna troppo frettolosamente, a rivedere il proprio giudizio su qualche album che si ricordava migliore di come in realtà è o invece a rivalutare in “toto” qualcosa che non si era apprezzato.
Come partire ? Beh, gennaio è finito da poco e in molti si sono dilettati a scrivere la propria classifica sui migliori dischi del 2018. Una volta queste “top ten” di fine anno le pubblicavano i “magazines” mensili, ma visto che adesso la carta stampata è in tragico e inesorabile ribasso, tali classifiche rimangono confinate sui social media, pubblicate per un gusto assolutamente solipsistico o giusto per confrontarsi con amici e followers per puro diletto.
Ovvio che anch’io l’ho fatta, ma sono bastate due / tre settimane di questo 2019 per iniziare ad avere dei rimpianti, legati soprattutto ad album colpevolmente ascoltati in ritardo. Partirei ad esempio da un gran bel disco come Damned If You Do, targato Metal Church e marchiato a fuoco dalla voce del ritrovato Mike Howe e dal songwriting della mente Kurdt Vanderhoof, cuore, anima, corpo e chitarra della “Chiesa Metallica”.
Oppure sempre restando in tema di chitarristi, alla voglia di rimettersi in gioco del buon vecchio Herman Frank: il suo Fight The Fear è un bel macigno di metallo teutonico, non c’è che dire. Un titolo che ho inserito nella mia “top ten” ma unicamente come citazione è The Wake dei Voivod, un disco che realmente cresce dentro ascolto dopo ascolto, proprio come un simbionte alieno che ricorda un po’ il Venom “marveliano” o che può ricordare uno dei tanti mostri cosmici narrati nei testi della stessa band canadese… a riascoltarlo adesso lo inserirei senza dubbio nella top ten, al pari di un altro titolo davvero valido ed ascoltato in colpevolissimo ritardo, Rise To Glory dei miei adorati Loudness: basteranno le mie scuse scritte ad Akira Takasaki e soci o sarà necessario un tragico “Seppuku” di riparazione ?
Alle soglie del 2020 qualcuno si interroga ancora sull’utilità dei live album, però secondo me quest’anno ne sono usciti almeno tre degni di attenzione: niente male quello sinfonico sfornato dagli Accept, avvincente anche nella lunga porzione strumentale che consente al “lider maximo” Wolf Hoffmann di dilettarsi con riletture in chiave metal di molti pezzi di musica classica presenti nel suo lavoro solista Headbangers Symphony.
Se volete invece rilassarvi avvolti dalle note acustiche niente di meglio di Defrosted 2 dei Gotthard, con molti classici della band elvetica riproprosti in versione “nuda e cruda”, mentre sul versante “classico” i Night Demon di Live Darkness danno una smaccata dimostrazione di come si possa ancora suonare heavy metal ultraclassico in modo fresco e avvincente.
Una volta finiti però i “rimpianti” sulla top ten del 2018 passiamo invece a ciò che invece questo primo scampolo di 2019 ha permesso di riscoprire. Inizierei ad esempio dalle buone riedizioni sia a livello grafico che di resa sonora proposte in edicola dalla collana “Prog Rock Italiano”. Una “collana” con scelte sicuramente anche dettate da logiche di budget e disponibilità ma che comunque sta riproponendo diversi capolavori di quella irripetibile e creativa stagione del rock italiano.
Il prog a tinte folk dei napoletani Osanna (ribattezzati all’epoca da Renzo Arbore come “Pulcinella Rock” !) e la magniloquenza del Banco del Mutuo Soccorso arricchita dalla vocalità unica del più grande frontman italiano di quella stagione, il grande (in tutti i sensi…) Francesco Di Giacomo, rimangono a distanza di quasi 50 anni capaci di emozionare e colpire per inventiva e creatività, senza mancare di generare una serie di interrogativi ormai senza risposta su cosa abbia impedito (con presupposti del genere) lo svilupparsi in Italia di una vera scena rock come invece accadde nel mondo anglosassone o nel resto d’Europa.
Quesiti appunto senza risposta o che necessiterebbero argomentazioni e disquisizioni che sforerebbero anche nell’extramusicale… magari un giorno ci torneremo! Andando avanti con gli anni, mi accorgo sempre più di come la percezione e la sensibilità con la quale si ascoltano i dischi è strettamente legata all’età e all’umore del momento.
Una premessa indispensabile per dirvi che a cavallo tra anni ’80 e anni ’90 il funky/metal degli statunitensi Living Colour mi aveva colpito poco, pur apprezzando l’oggettiva bravura della band… nel metal cercavo ben altre sonorità. Riascoltandoli adesso, soprattutto in Stain, devo ammettere che seppur lontani miglia dall’immaginario più classicamente hard’n’heavy siamo di fronte ad una band grandiosa!
Ok, fatto il doveroso “mea culpa” rimaniamo più o meno in quel periodo con due bands che mi sono trovato a riascoltare e che all’epoca venivano spesso citate solo per accostarle immancabilmente ad altri nomi in senso spesso negativo, ovvero Quireboys e Kingdom Come. I primi vennero lanciati come “risposta” inglese ai Guns’n’Roses e tanti ingenui ragazzini dell’epoca ci cascarono in pieno.
In realtà gli inglesi del rutilante hard/glam rock losangelino avevano poco o nulla se non il look un po’ trasandato, mentre musicalmente invece ho apprezzato molto di più adesso rispetto ad allora il perfetto mix di puro rock e “white blues” britannico, i riferimenti evidenti a Rolling Stones e Small Faces o la vena “sardonica” più vicina ai Nazareth che al rock “a stelle e strisce” presenti nel bellissimo debutto A Little Bit Of What You Fancy.
Grandiosi lo erano anche i Kingdom Come, ma lo “stigma” di quella Get It On (lanciata per scherzo all’epoca da una radio americana come il nuovo singolo dei Led Zeppelin!) forse non se lo tolsero mai di dosso e a riascoltarli a distanza di anni sono molto meno “zeppeliniani” di altre band coeve dell’epoca (chi ha detto ad esempio Great White ?) e forse tanto “odio preventivo” era assai immeritato e immotivato.
Sempre rimanendo in campo hard rock mi sono piacevolmente “incontrato” (musicalmente parlando) con i tedeschi Hotwire, una delle tante bands di quel primo scorcio degli anni ’90 che se fossero uscite qualche anno prima sarebbero potute diventare delle star. Arrivarono fuori tempo massimo (metà anni ’90) e me li ricordavo solo per le loro ammiccanti copertine (un bel fondoschiena sul primo disco e due belle gambe fuoriuscenti da un vestito rosso sul secondo Devil In Disguise) adesso grazie a internet ce l’ho fatta pure ad acquistare i loro dischi, che rivelano la sostanza di una bella hard rock band sulla scia dei connazionali Bonfire.
Tanto hard rock in questo gennaio ma il metallo duro e puro non è mancato: nuove leve come Sanhedrin, Evil Force, Satan Worship o le svizzere Burning Witches mostrano le varie facce del vecchio/nuovo heavy metal mentre un disco che ho fatto davvero “fatica” a smettere di ascoltare è stato il live dei Fates Warning con la prima line up, registrato al Keep It True Festival del 2016.
Sarà perché ero presente al concerto, sarà per l’emozione di trovarsi di fronte i Fates Warning con alla voce John Arch che ripropongono il capolavoro Awaken The Guardian per intero ma ogni volta che arrivavo in fondo e la musica ripartiva con la opener The Sorceress la voglia di pigiare ‘eject’ era sempre pari a zero !
Per questo mese mi pare sia tutto!