Buona domenica, equini miei. Sappiate che ve la sto augurando buona di venerdì sera, quindi prendetela un po’ come vi pare. Speriamo sia bel tempo, un piccolo anticipo di primavera da restituire con gli interessi per tutto marzo e aprile e un pezzo di maggio, in cui vento, neve, pioggia e grandine renderanno umidi e disperati i vostri post di facebook.
Ma non è del tempo che voglio parlarvi, anche se un giorno sarebbe da fare, un intero domenicale sul tempo, sulle nuvole, sull’umidità, le previsioni. Non una riflessione sullo strapotere dei metereologi nei confronti dei ristoratori e le industrie alimentari, ma proprio un post sul tempo che fa, come se fossimo sotto la tettoia di una fermata del bus e grazie alle previsioni del tempo, le sensazioni del tempo, finissi per fare un monologo sul… tempo.Una volta un playboy rinomato disse che non aveva alcuna importanza l’argomento con cui rompere il ghiaccio con un’attraente sconosciuta. “Se lei vuole darvela, potete anche chiederle solo l’ora o magari cianciare del tempo. Il seguito verrà naturalmente”.
Boh. In ogni caso voglio entrare nel vivo del tema di questa domenica. Sto leggendo quattro libri, in questi giorni. Non fate quella faccia, io uso così. Sono un lettore parallelo, parallelista, parallelepipedo. Va beh, leggo tre o quattro libri insieme. Quando ne finisco uno, magari nel giro di due giorni ne finisco anche altri tre.
Questo sistema con cui affronto i libri mi ha condotto a capire che spesso i testi che metto in fila sono collegati. A volte lo so, è una cosa cosciente, altre mi stupisco che testi apparentemente privi di collegamenti testuali o addirittura appartenenti a generi letterari diversissimi finiscano per parlarmi tutti della stessa cosa.
Non voglio perdere tempo a citarvi i libri che sto leggendo, ma intendo porvi all’attenzione ciò che mi stanno praticamente dicendo in coro tutti e quattro: “abbiamo” due tipi di conoscienza su cui fare conto: quello che sappiamo noi e quello che sa il nostro sangue. Spesso però intendiamo affrontare la vita solo con l’aiuto di ciò che sappiamo coscientemente, ciò che abbiamo studiato e che ci ha insegnato la nostra più o meno misera esperienza di vita.
Eppure c’è molto altro. Dentro di noi c’è tutto il bagaglio di strumenti che i nostri antenati ci hanno lasciato in dotazione. Sappiamo fare tutto, sappiamo sopravvivere. Se solo ci trovassimo di fronte a un’esperienza estrema, finiremmo per morire in preda al panico e poi, siccome nessuno muore mai di panico, inizieremmo a sentire cosa fare.
Fate attenzione, ho detto “sentire”. Non “sapere”, né “capire”, ma sentire.
Uno dei libri che sto leggendo si intitola Il richiamo della foresta. Jack London, esatto. Parla di un cane di nome Buck, condotto dal sicuro salotto di un ricco uomo del sud, nella fredda Alaska, a trascinare una slitta con altri nove cani più o meno grossi e brutali.
Via via che la zanna e la frusta impartiscono a Buck le loro imprescindibili lezioni, così come il freddo, la fame e la fatica, ecco che il cane domestico e pacioccone finisce per regredire a uno stadio più primitivo che non pensava di poter raggiungere.
E nel giro di qualche settimana Buck diventa una belva spietata, inarrestabile, il capo del branco di cani trainatori. Leggendo Il richiamo della foresta ho capito perché LaVey definì London un licantropo. Vi basterà poco a capire il motivo ora che lo sapete, ma solo il genio di Anton poteva scorgerlo. I più grandi successi di questo scrittore, del resto sono due storie di animali. Dal punto di vista degli animali. E l’immedesimazione di London verso i suoi protagonisti non è miracolosa, sì sente che è un uomo che si filtra attraverso lo stereotipo canino, ma questo gli offre un pretesto per parlare di natura umana, retrocessa a un livello più peloso.
Solo un uomo bestia può davvero descrivere in quel modo lucido e potente cosa significhi la smania di uccidere e sbranare dei cani feroci in uno stadio selvaggio. Che poi è simile a quella dei lupi. Ma non è questo il punto del pezzo che sto scrivendo. London, così come il povero Chris McCandless di Into The Wild, mescolati a Tolstoj e Thoreau (quello del “midollo della vita“) sostenevano tutti, ognuno a modo proprio, che solo le situazioni estreme possono farci crescere, evolvere e rimetterci in contatto con la parte più istintiva, potente, eterna della nostra natura.
E questo è il punto.
L’errore di McCandless, probabilmente è stato quello di aver cercato esperienze selvagge e primeve, come una specie di droga, rendendo la sua esistenzia alla stregua di un qualsiasi survivalismo metafisico, mentre Tolstoj era imbevuto di una retorica della semplicità tipica degli aristocratici. Dickey invece, (quello di Deliverance aka Un tranquillo week-end di paura) mette un uomo moderno, cittadino, equivalente umano di Buck, in un contesto di sopravvivenza nella natura selvaggia e anche lì riesce a cavarsela, contro le sue stesse previsioni, perché la fame, la stanchezza, il desiderio di vivere, lo stordiscono così tanto a livello mentale che il suo bagaglio genetico può infine fluire e donargli quel sesto senso primordiale (ormai relegato alla definizione vaga e superstiziosa di intuito) che una volta permetteva ai suoi antenati nelle foreste di avvertire l’arrivo di una belva predatoria o di vedere sempre dove mettere i piedi nelle arrampicate o nelle fughe.
London dice che per vivere a pieno la vita, si deve paradossalmente cadere quasi in uno stato di non-vita, una semi-incoscienza parossistica. L’uomo che diventa puro istinto e “cieco” e inarrestabile, annienta ogni ostacolo e finisce per salvarsi la pelle.
Non sto dicendo che tutti potremmo andarcene in un posto selvaggio, chiudere gli occhi e goderci la “knowledge inside”, molti di noi perirebbero, ma tutti quanti, di questo sono convinto, avremmo accesso a un sapere che la vita che conduciamo, così comoda, sicura e tranquilla, ci rende estraneo perché non scatena mai il bisogno di usarlo.
Non so cosa poi generi le nevrastenie, le crisi di panico e i fenomeni sociopatici come sparare nelle scuole o rapire i propri figli e seppellirli sotto un ponte. Ma penso alle lepri di mio padre. Lui ne ha allevate tantissime nelle gabbie. Alcune crescevano a terra, in pezzi di terra recintati e con misure di sicurezza adatte a tener lontane volpi e faine. Altre diventavano adulte in gabbia.
Quando le vendeva: le lepri “da terra” costavano 100 e quelle “da gabbia” 50. Ovviamente, il momento in cui questi poveri animali venivano lanciati nella riserva, le prime sgroppavano verso il cespuglio, le altre strisciavano fuori dal sacco intontite e terrorizzate e rimanevano lì a farsi cuocere dalla luce del tramonto. Se sopravvivevano alla notte, queste ultime, presto avrebbero recuperato la via genetica e sarebbero diventate magari imprendibili come le sorelle cresciute all’aperto. Altrementi finivano per fare da pasto alle volpi o i gatti selvatici entro le 24 ore dal loro “lancio”.
Le lepri da gabbia però non erano più economiche solo perché venivano dalla gabbia e quindi non sapevano come affrontare lo spazio selvaggio, ma per le orecchie “mozze”. Tenute al sicuro dietro la rete, con la cuccia calda di fieno fragrante e la ciotola sempre piena di mangime, un tubicino gocciolante per l’acqua, le lepri adulte facevano “cose strane” ai loro piccolini. Le madri li mangiavano. I padri li uccidevano.
Nella migliore delle ipotesi gli adulti mordevano le orecchie ai piccini. E questo li faceva crescere con le orecchie smangiucchiate. “Mozze”, appunto.
E una volta fuori, il giorno che il cacciatore l’ammazzava e la sfoggiava davanti ai compagni di battuta, ecco la prova che quella lepre, con le orecchie non integre, era cresciuta in una gabbia e quindi era tonta, ingenua, più facile da prendere.
Per questo le lepri da gabbia costavano meno delle lepri da terra, avevano la prova nelle orecchie. Le altre in terra avevano abbastanza spazio da non finire mai per mordersi a vicenda, e se erano uccise dal cacciatore, lui poteva anche illudersi di aver fatto fuori un animale nato e cresciuto in riserva, quindi assai più scaltro e arduo da beccare. Magari era una lepre da terra, liberata la sera prima, ma poco importava. E poco importa. Credo ancora oggi sia così, tra i cacciatori e gli allevatori di lepri.
La parte su cui vorrei condurre la vostra attenzione però non è tanto la logica economica intorno a questi animali, ma la tendenza a farsi male tra loro più li si tiene in ambienti “sicuri”. E non ci vuole molto a capire che noi uomini, abbiamo un disagio simile. Non siamo come le lepri, va bene, e questo benessere ce lo siamo costruiti noi, ma forse non abbiamo ascoltato la parte selvatica che alberga al nostro interno. Quella che poi ci trasforma in depressi, in esauriti persi, in mostri.
Sappiamo perché un uomo mollato dalla moglie finisce per avere crisi di panico. La sua moderna nevrosi alberga in un sistema nervoso antichissimo. La delusione amorosa è riconosciuta dai nervi come pericolo (qualsiasi pericolo, tigri dai denti a sciabola, terremoto, inondazione, vulcano). Il sistema nervoso non fa distinzioni in questo senso. L’uomo soffre, lui riconosce la minaccia e innesca dei meccanismi che lo conducano lontano dal pericolo. Paradossalmente, se un uomo respinto dalla donna che ama anziché chiudersi in camera a piangere sul cuscino iniziasse a correre come Forrest Gump, starebbe molto meglio, perché il sistema nervoso, che gli ha offerto la forza di fuggire dalla minaccia, smetterebbe di pressarlo in questo senso e non gli scatenerebbe il noto fenomeno della crisi d’ansia: fiato corto, sudorazione alta, battito accelerato eccetera.
Dovremmo renderci conto che non tutto quello che siamo è al passo con la vita che facciamo. E che il nostro essere è una strada lunga e tortuosa dai Mammuth a internet, ancora percorribile, in avanti e indietro. Non è crollato alcun ponte, anche se insanamente ci piacerebbe. Abbiamo paura a tornare indietro fino alle grotte, lo so. Ma è lì che stanno tante risposte.
Le cose che ci spaventano di più, nel mondo “sicuro” (ho usato più virgolette oggi che negli ultimi dieci anni) in cui viviamo, sono il sesso e la morte. Al fondo di tanto patire ci sono queste due cose. E il terrore di non riuscire ad affrontarle. Io ho perso la verginità a 30 anni. Ero spaventato a morte dalle donne e dal sesso. Mio padre e mia madre vanno per i settanta ma sembrano sempre più dei bambini spauriti e non mature persone che hanno investito la propria esistenza ad accettare e prepararsi all’evento ineludibile. (basta virgolette).
Quando nacque mia figlia, non successe nulla che non conoscessi già. Sì, il mio cervello registrava, si scombussolava, ma a livello istintivo, io lì c’ero già stato. Il mio primo orgasmo lo riconobbi. Dissi, “ah, ecco, era questo”. Sappiamo come fare sesso, come fare figli ma non perché leggiamo le bibbie del bel fottere o della puericultura avanzata. Lo facciamo perché la nostra natura sa come si fa. Dobbiamo solo smettere di usare il cervello e lasciare che il nostro corpo segua il proprio corso naturale, battuto da centinaia e centinaia di anni di uomini che hanno scopato e fatto figli prima di noi. E come queste esperienze alla fine non sono nuove, ci vengono trasmesse geneticamente, conosciamo la strada per farle. Anche morire ci verrebbe naturale, se non stessimo tutto il tempo a mandarci l’esistenza di traverso per la paura di non riuscirci.
O meglio di non riuscirci come si deve. Si ha paura di soffrire prima della morte, del dolore, ma anche per quello il nostro corpo sa. Ogni passo, la nostra natura è già stata lì. Dobbiamo solo seguirla. Questo pensiero dovrebbe consolarci ma dubito che sia sufficiente. Però è vero che alla fine tutti riescono a morire. E di conseguenza tutti sanno come si fa. E sono sicuro che il momento in cui arriverà la mia fine io la riconoscerò. Come tanti ho visto, nei film, ho letto nei libri ma anche ho sentito nei racconti dei miei famigliari, quando si avvicina il minuto finale, il moribondo assume quasi un distacco sereno, lascia andare tutto, fa come se volesse che la gente attorno a lui si spostasse e permettesse al varco di aprirsi e alle mani che vede solo lui, di prenderlo e portarselo via.
Buona domenica da un ventoso venerdì.