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Death Karma – Il metal estremo che fa bene all’umore

The History Of Death & Burial Rituals Part I & II è un lavoro in due parti dei Death Karma, uscito tra il 2015 e il 2018.

Non si può parlare di The History Of Death And Burial Rituals Part II senza tirar dentro anche di The History Of Death And Burial Rituals Part I. E forse quando uscirà The History Of Death And Burial Rituals Part III e magari The History Of Death And Burial Rituals Part IV e The History Of Death And Burial Rituals Part V, via via fino a coprire ogni anfratto della terra, di otto canzoni a botta, nei suoi riti cerimoniali sulla morte e la sepoltura della morte in the world, toccherà rispolverare ancora questi due album iniziali e fare un tira le somme aggiornato. Non mi deprime un’eventualità del genere, comunque.

A mio avviso il lavoro dei Death Karma, duo sloveno composto da Tom Coroner (alias Tomáš Corn) e Infernal Vlad (alias Infernal Vlad) è tra le cose più interessanti fuoruiscite dai tombini intasati del nuovo underground europeo.

Siamo sul black metal randomico, vale a dire quello che comincia in un modo e non sa nemmeno illo dove vada a parare, con brani lunghi minimo cinque minuti in cui da una furente partenza si finisce magari in un bordello di oppiacei floydiani o dentro una vigna di suoni techno-industriali.

Nel caso dei Death Karma l’intento è di rimandare musicalmente alle atmosfere territoriali dei paesi che vengono affrontati in ogni pezzo. C’è Haiti, la Thailandia, l’India, Mexico, la Repubblica Ceca e così via in un’Alpitour of the dead che vi raccomando lanciandovi contro peli del mio pube.

Certo, gli arrangi spesso piegano su stereotopie sonore conclamate (per la Cina vai di campanelli e piccoli gong) e in altre composizioni dobbiamo affidarci al titolo per capire che siamo in una determinata zona geografica di passaggio tra questo mondo e l’altro (India, Indonesia) e non in un qualsiasi bosco della Norvegia nel 1993, ma va detto: The History Of Death And Burial Rituals (in every part as factible) è, quando gli gira bene, una suggestiva rassegna documentata e musicalmente evocativa, di tutti i “cancelli terracquei” tra questa realtà e l’irrealtà successiva. Talvolta si tratta solo di becero black-thrash con troppe tastiere e velleità scorreggione, ma ci sono attimi in cui i Death Karma riescono a creare qualcosa di potente, molto emotivo e persino raffinato.

Forse gli episodi più suggestivi sono, per la prima parte, Mexico – Chichén Itz, con una prima parte tribalissima a go go e la sbriciolata doom atmosferica conclusiva e Madagascar – Famadihana , lugubre e imbevuta nel muffolengo, come i tufi del castello gotico dove andavano a farsi le canne i Paradise Lost nel 1991.

Per la seconda parte invece scelgo Haiti – Voodoo, che inizia con il tapping sui tamburelli (tipo Adrian Smith in spiaggia con Tony Esposito) poi vagona brutalmente su un bel riff cavernicolo in quattro quarti e si conclude con una tessutata di chitarre in controcanto degna dei più lacrimevoli anni 90 (sempre il grande Tony Esposito a dargli sostegno alle armonie con i suoi patapim e patapam). In pratica, a parte i tamburi, col Voodoo e Haiti, questo pezzo non centra una mazza, però è molto bello.

Mi piace tanto anche New Zeland – Mongrel Mob, che inizia con una moto scurreggiona e degli ululati in stile Wherewolf on Wheels e poi salassa tutti con un tuppatturupa black metal alla Darkthrone e va avanti così fin quando non siete proni a mani giunte sotto il panzone birrato di un centauro fetido e barbuto con gli occhiali sequestrati a Tom Araya nel 1992. Interessante il soggetto qui: Mongreal Mob è una sorta di comunità di motociclisti che fanno tutto per i cazzi loro, tipo i Casamonica in Easy Rider, e i Death Karma mostrano un grande intuito a occuparsi non solo delle più radicate tradizioni folkloriche ma anche di nicchie necrologiche più moderne come questa.