Planet Zero è un disco dei Die Klute prodotto dalla Cleopatra Records.
Non molti lo ricorderanno, ma c’è stato un periodo nel quale Dino Cazares pareva destinato a diventare uno dei personaggi-guida della scena metal. Erano gli anni novanta, e alla metà esatta aveva pubblicato con Demanufacture uno dei dischi fondamentali del genere nel decennio; molto loquace nelle interviste, cercava di sdoganare la techno presso i metallari, almeno quelli più open-minded.
Tra tira e molla con la band madre, progettini vari e oggettivi limiti tecnici e creativi, la sua pur rispettabile carriera non ha mantenuto le promesse di gloria.
A farlo svoltare non sarà presumibilmente Die Klute, bel nome onomatopeico evocante clangori metallico-industriali, il più recente di tali progettini.
Questo non perché sia un brutto disco, anzi, bensì perché:
1) non propone niente che non si sia già sentito;
2) il ruolo di Cazares è sostanzialmente defilato rispetto a quello del frontman Jürgen Engler, dai Die Krupps, mastermind del “supergruppo” completato da Claus Larsen dei meno noti (formula giornalistica per dire non so chi cazzo siano) Leæther Strip.
Die Krupps: un nome sconosciuto in Italia, ma che in Germania ha sempre riscosso un notevole seguito di pubblico, avendo rappresentato un po’ l’anello di congiunzione tra l’electro della Neue Deutsche Welle (quella dei DAF, primi anni ’80) e il metal dell’epoca Neue Deutsche Härte da cui provengono i Rammstein. Un percorso stilistico di grande interesse, con tratti simili a quello dei Ministry. Difatti Engler fa la sua porca figura anche qui, orcheggiando col suo vocione crucco e indovinando una bella serie di hooks su ritmi marziali tipici della casa.
Cazares si fa notare poco: nel riffing slayeriano di Human Error, in qualche tessitura più doomy in Infectious. Per il resto, in primo piano restano voce ed effetti percussivi, un po’ ripetitivi in pezzi come If I Die, Out Of Control, Push The Limit e Rich Kid Loser, tutte variazioni sul pur gradevolissimo tema picchia in 4/4, mettici il coro anthemico, qualche chitarrone aggressivo, un po’ di effettacci e vai di serata goth-metal-EBM in qualche locale equivoco della Bassa Sassonia.
Si fanno notare allora i pezzi un po’ diversi, come la più sorniona Born For A Cause, andatura ritmica caracollante e suonini electro in sottofondo che rendono giustizia alle riconosciute competenze da arrangiatore di Engler. Sul lato opposto dei bpm per minuto, non lascia indifferenti neppure il supermartellone It’s All In Vain.
Resta da dire del gusto raffinato nella scelta delle due cover di chiusura: She Watch Channel Zero?! dei Public Enemy, ottimamente interpretata sul piano vocale ma -benedetto il Signore – se mi fai una versione metal di un pezzo rap che in originale ha come base Angel Of Death e me la togli, la cosa è quantomeno paradossale.
L’altra cover è Mofo, il pezzo più interessante di quel brutto disco che fu Pop degli U2: jungle, big beat, voglia di sperimentare e contaminare, metà anni ’90.
Il punto di questo disco è che siamo fermi lì, a quell’epoca. Se fosse uscito allora sarebbe stato una bomba, oggi è un esercizio di stile su un genere dai contorni canonizzati. Però un bell’esercizio di stile, perché ben prodotto, ben scritto e fa muovere il culo. Dategli una chance.