Capita in una recensione positiva di leggere la sbalordita e compiaciuta constatazione dell’autore: “e comunque qui ci sono le canzoni!”. Come sarebbe, ci si domanda. Certo che ci sono le canzoni, dodici, dieci, insomma, un’intera track-list. L’album per essere tale ha bisogno di canzoni.
Ma non canzoni e basta, che non si ricordano, che somigliano a tutto e nulla, che allineate una dietro l’altra sembrano formare un unico blob di metal senza guizzi, increspature, senza combinazioni magiche di note che possano stupire e agguantare il cuore dell’ascoltatore e realizzare l’incantesimo che gli faccia credere che non è la solita minestra heavy ma qualcosa di unico… che si ripete, come l’amore.
Si parla di canzoni canzoni, quelle con un riff che ti ricordi e vuoi imparare a suonare con la tua chitarra, quelle con una melodia che ti entra dentro e non se ne va più. Masters Of Puppets, Painkiller, The Boys Are Back In Town. Esempi troppo alti? Ok, allora prendete Nice Day For A Funeral degli Overkill, Crucified dei Lillian Axe, Love Is On The Way dei Saigon Kick, Corporeal Jigsore Quandary dei Carcass… avete presente? Canzoni vere e niente cazzi. Riff fichi che ti fanno appizzare l’orecchio, melodie che funzionano e ti fanno sentire diverso mentre le ascolti. In una definizione, i brani che ridestano dal letargume melomanesco odierno.
Non chiediamo neanche più delle grandi canzoni, ma qualcosa che nelle intenzioni voglia lasciare un segno, che sia frutto di una genuina ispirazione. L’ispirazione è la registrazione di un cammino spericolato nel vuoto. Spesso nella musica di oggi manca quel lampo sospeso della creatività che è una sorta di punte tra l’autore e chissà che cazzo. Lo segue, si prende rischi e alla fine, se non precipita nel nulla, ha una melodia forgiata nell’acciaio degli dei. Una melodia nuova che durerà per anni di battaglie, come una spada può essere una nuova spada, una lama una nuova lama.
Voi direte, ok, ma i pezzi che citi tu lì sopra per noi non sono granché. Non esiste un modo sicuro, scientifico di riconoscere una canzone canzone da una canzone qualsiasi. Vero, ma io non voglio l’universalità di consensi nelle scelte che faccio. Ognuno avrà le sue canzoni. Sfido però chiunque a tirarne fuori venti di valide, di vere, di preziose, tra i dischi che ha sentito, tra quelli usciti negli ultimi dieci anni.
Io non so voi ma non arrivo a tanto. Ne posso citare sei o sette, ma venti proprio no.
Però non sono io che invecchio. I tempi sono oggettivamente cambiati. Questa non è un’opinione.
Ok, certo, sono consapevole che quando si parla di metal bisogna sempre tener presente che si tratta di considerazioni vincolate dalla propria generazione di appartenenza. Io e te diciamo “i Maiden migliori” mentre chiacchieriamo amabilmente all’ombra di un post sui Maiden di facebook. Tu però sei del 1972 e ti riferirai ai dischi fino a The Number Of The Beast e io che sono del 1978 arriverò a comprendere Seventh Son o addirittura Fear Of The Dark. quando scrivo “I Maiden migliori…”
Ci sono dati storici e quelli possono essere la prova che le cose ormai sono obiettivamente diverse, rispetto a vent’anni fa. E che quindi se io non trovo più le canzoni canzoni, probabile che dietro a questo fenomeno vi siano delle cause vere e indiscutibili.
Per prima cosa è sparito il mercato musicale classico. Si faceva un disco, si ricavava un singolo, usciva il 45 giri e arrivavano un mucchio di soldi.
Ecco, i 45 giri. Quando mai oggi una band metal che non sia Metallica o Maiden, può prendersi la briga di concepire un potenziale singolo? Per farci che cosa? La suoneria di un telefonino? Ma il metal di oggi non può aspirare a tanto.
Prima era un dovere cacciar fuori un singolo. E un singolo nel migliore dei casi era una canzone canzone. Prendete i Rush. Il loro problema in un disco come Caress Of Steel o in Fly By Night era che non avevano potenziali hit. Ci misero molti anni a sfornarne e ne fecero di fenomenali, secondo il loro stile e i loro tempi, ma sempre ubbidendo alle regole del mercato che chiedeva singoli.
Le case discografiche esigevano hit dalle band ed erano pronte a pagare produttori compositori o co-autori. Oggi queste figure, tranne a livelli alti del pop (Pharrell Williams su tutti) non esistono più nel rock e tanto meno nel metal.
Quindi le band, se vogliono ancora fare canzoni canzoni, con il ritornello vincente, con il riff che fa la differenza, devono sbrigarsela da sole. E di solito falliscono.
A parte l’inutilità, visto che nessuno si aspetta una hit da gente come i Saint Vitus o i Pallbearer, alla fine neanche potrebbero riuscirci perché non possono farsi aiutare da una figura esterna che svolga un lavoro di editing sul loro materiale.
Vi svelo un segreto: fare canzoni lunghe è la cosa più facile per un musicista. I gruppi giovani iniziano a scrivere pezzi e si ritrovano cose di 12 o 15 minuti. E si danno le arie: cazzo, quasi facciamo prog, altro che death metal!
No, voi siete solo prolissi.
Gli Alice Cooper non avrebbero mai superato l’empasse dei primi due fallimentari dischi se non avessero incontrato il produttore e musicista Bob Ezrin. Fu lui a dire al gruppo, prendete quella canzone di 12 minuti, tenete i primi due e buttate il resto. Avrete un singolo.
E così nacque I’m Eighteen.
Gli Scorpions è un altro esempio lampante. Ricordate Lonesome Crow? Oggi tanti revisionisti apprezzano quel disco d’esordio della band tedesca, ma negli anni passati era una roba impresentabile per il mercato che poi la band era riuscito a conquistare. Il gruppo se ne fregava di scrivere singoli all’inizio e faceva questi pezzoni lunghi e sperimentali perché c’erano nicchie di mercato rock che li consentivano ma poche band riuscivano a cavarsela con le vendite senza singoli. Fu il produttore Dieter Dierks a imporgli di accorciare i pezzi e focalizzare gli sforzi compositivi solo sulle idee migliori. E da lì si arrivò via via alle power ballad che tutti conoscete.
Le band avevano bisogno dei singoli per continuare a vivere. E le etichette per investire ancora su di loro. Oggi questo non è più necessario. Non essendoci un mercato e potendo, qualsiasi Jonny Pettersson dare vita a dieci progetti/gruppi al mese, non vendere un cazzo e continuare a prosperare, che bisogno c’è di fare singoli? Difficile riuscire a farne e occorrono specialisti o bisogna essere dei geni. E non mi sembra che ce ne siano nel metal di oggi.
La gente, noi tutti, ancora necessitiamo di hit e di canzoni canzoni. Ne ha bisogno il nosto cuore. Per trovarne finiamo di ripiegare su vecchie glorie che continuano (dato che hanno avuto lezioni preziose dai vecchi producer del passato) in modo autistico a scrivere possibili hit che nessuno trascinerà mai in cima alle classifiche.
Se non volete chiamarli hit allora pensate a dei cardini che tengano in piedi un album. Di solito ne bastano tre. Uno all’inizio, uno al centro e magari uno alla fine. In mezzo può esserci il vuoto ma tre momenti topici vanno almeno tentati.
E invece no. Niente di niente. Del resto il mercato non è più un discrimine. Quanti dischi hai venduto? Tre? Allora sei fuori.
Le cose iniziarono a cambiare con Burzum o i Darkthrone, che se rispondevano affermativamente alla domanda dei tre dischi dicevano di sentirsi realizzati.
Ma sappiamo che non è stato il black metal ad azzerare le pretese di ogni artista di lasciare un segno. Questa però è una cosa che approfondiremo un altro giorno.
Se l’argomento vi appassiona potete approfondire leggendo anche il doppio articolo di Alessandro Viti.