Lords Of Chaos nella lettura di Roberto Alessandro Filippozzi.
Com’era prevedibile attendersi da un ambiente contraddittorio, pseudodogmatico e spesso farsesco come quello dei black metallers, dove le pose più o meno ridicole si sprecano e in cui vi è sempre la volontà da parte di molti di atteggiarsi a “giudici supremi” per definire cosa sia “true” o meno, un mare di polemiche ha accompagnato il film Lords Of Chaos ancor prima della sua uscita.
Legittime? Sicuramente no, poiché giudicare qualcosa che ancora non si è sondato a dovere è un esercizio privo di senso, degno giusto di un ambiente in cui non si contano coloro che si autoeleggono “difensori” di una musica che troppo spesso viene vissuta – sulla carta – alla stregua di una dottrina, soprattutto da chi predica bene e razzola malissimo.
Ma certe polemiche “true vs false” le lasceremo volutamente fuori, poiché alla fin fine si tratta di un film, e non di qualche musicante senza alcun reale peso specifico che vorrebbe arrogarsi il diritto di essere l’alfiere per eccellenza di un genere che ha smesso da tempo di rappresentare quella “rottura” che ben incarnò nei primi 90s.
Di per sé, il progetto di fare un film sulle arcinote vicende extramusicali che accompagnarono l’ascesa dei blacksters norvegesi ci poteva anche stare, e l’idea che ad occuparsene fosse un regista come Jonas Åkerlund, certamente più noto per i suoi videoclip (girati per alcune delle più grosse star della musica pop, fra cui Madonna, U2, Robbie Williams etc.), ma che nei primi 80s fu batterista dei seminali Bathory, poteva rivelarsi una saggia mossa, trattandosi se non altro di uno “dell’ambiente”.
Purtroppo, questa sua nuova fatica, sotto ogni punto di vista, si è rivelata tragicamente grossolana, a partire da una regia deficitaria che, unita a una sceneggiatura che definire lacunosa parrebbe un eufemismo, affossa ogni possibile sogno di gloria che vada oltre l’aver confezionato un prodotto per quei cultori di bocca buona.
Se Lords Of Chaos nelle intenzioni puntava a raccontare alle masse – parallelamente ai fattacci di cronaca – un fenomeno circoscritto come il black metal norvegese, allora ha fallito miseramente, perché chi era all’oscuro di cosa sia stata quella precisa epopea musicale non trarrà dal film alcuno spunto utile per comprenderla.
Anzi, il ritratto che ne esce è solo quello di un branco di sbarbati casinisti e finanche ingenui che usavano un “satanismo” da birreria di grana grossissima per sviluppare su un piano fintamente dogmatico ciò che alle orecchie di un profano suona come mero baccano.
Benché Lords Of Chaos non sia mai stato nelle intenzioni un documentario sulla scena black metal, l’aspetto squisitamente musicale non emerge praticamente mai, e in quasi due ore di pellicola lo spazio per evidenziare le prerogative di questo specifico genere musicale ci sarebbe stato eccome, a volerlo trovare.
Anche nella colonna sonora, come è noto, l’essenza del black metal non emerge: ci sono ovviamente molti brani dei Mayhem, attorno ai quali ruota la pellicola, al fianco di svariati pezzi di numi tutelari del metal come Celtic Frost, Accept, Dio, Bathory, Sodom, Carcass etc…, nonché alcune song di act quali Sigur Rós, Wardruna e Dead Can Dance (oltre ad un valido contributo dell’amata/odiata Amalie Bruun/Myrkur), ma gli altri protagonisti dell’ascesa di quel sound hanno tutti fragorosamente declinato l’invito a fornire i propri brani, azzoppando di fatto il progetto.
L’unica nota positiva viene dal fatto che i Venom rimangano relegati sullo sfondo con niente più che toppe e/o poster, poiché l’unico punto di contatto della band britannica col black metal è quello di aver intitolato così un album, e se proprio uno deve andare a cercare i riferimenti embrionali giusti per la nascita del metallo nero, dovrebbe semmai cercarli nel fondamentale Under The Sign Of The Black Mark dei Bathory.
A livello di narrazione, Åkerlund ha preferito soffermarsi sugli eventi delittuosi nati in seno alle faide personali degli indiscussi protagonisti di quel momento storico, Euronymous e Varg Vikernes, e se questa scelta si poteva anche avallare, è sulle modalità che ci si deve interrogare.
Detto dei problemi di regia e sceneggiatura, colpisce in negativo anche il livello di recitazione, in vero molto basso (salvo forse per il figlio di Val Kilmer, Jack, che rende tutto sommato giustizia alla figura di Dead) e spesso dilettantesco, ma evidentemente questo è ciò che si ottiene quando gli interpreti sono dei semplici “figli di” o “fratelli di” (Euronymous è interpretato dal fratello dello sfigatissimo Macaulay Culkin, Rory, e Faust è impersonato dal figlio di Stellan Skarsgård, Valter) piuttosto che dei comprovati professionisti.
La figura di Snorre, a esempio, è resa in maniera a dir poco imbarazzante da un certo Wilson Gonzalez, che lo fa sembrare un povero scemo che ha giocato troppo a dadi coi cromosomi, e più in generale, oltre a mancare larga parte dei personaggi che animavano la scena norvegese, quei pochi presenti sono ritratti senza alcuno spessore da attorucoli dalle performance insipide.
Ma il difetto più grande di Lords Of Chaos è quello di essere stato volutamente e quasi completamente impostato come un puerile dispetto a Vikernes, il quale, verosimilmente inviso ad Åkerlund, viene ritratto come un poser manipolabile, facilmente impressionabile, scemo, frivolo e con seri problemi relazionali.
Non bastasse l’averlo ritratto come un emerito imbecille, ecco che a interpretarlo arriva un “attore” che, oltre ad avere il fisico per impersonare semmai quel classico metallaro reietto e tragicamente in sovrappeso da scuola superiore, all’anagrafe fa Cohen di cognome.
Uno sfregio voluto e cercato – probabilmente fra le matte risate – dalla compagine dietro alla pellicola, poiché la chiara origine ebraica di costui (guarda caso anche co-produttore del film) non poteva che irritare profondamente Vikernes, da sempre antisionista convinto.
D’altronde, come ci si poteva facilmente attendere da produttori smaccatamente petalosi, no-borders e genderfluid come quelli di Vice (che ovviamente enfatizzano da par loro anche l’uccisione dell’omosessuale da parte di Faust), sono gli stessi fotogrammi del film a dipingere banalmente Varg come un “nazistello” (oltre che scopatore impenitente, onde aggiungere superficialità a una figura che si vuole deliberatamente distruggere) operando quella patetica “reductio ad Hitlerum” tanto in voga nei salotti globalisti e radical-chic in cui non vi sono idee da contrapporre all’avversario politico di turno.
Delle idiozie che sparava Euronymous, il quale si dichiarava ammiratore di Pol Pot e dei regimi totalitari comunisti più repressivi e spaventosi, guardandosi bene però dall’abbandonare la sua accogliente Norvegia per andare a provare sulla propria pelle quello “stile di vita” (ipocrisia, portami via…) neanche una traccia.
Quasi trent’anni dopo, il tempo galantuomo ci racconta tutt’altra verità: da una parte c’è Varg, che dopo aver assassinato Euronymous ha pagato per intero il suo debito con la giustizia e si è ricostruito una vita lontano dalle luci del music-business (rifiutando anche laute offerte in termini economici) e sfruttando sia le nozioni acquisite nei molti anni di studio all’interno del carcere che un sense of humour sagace e pungente (anche se poi ti arriva sempre il giornalettista di turno che, dal suo pulpitino “politically correct”, viene a ragliare che il canale youtube Thulean Perspective di Vikernes sarebbe “il posto peggiore di tutta internet”) e dall’altra i Mayhem, che raschiano il fondo del barile andando a suonare dal vivo De Mysteriis Dom Sathanas per intero, onde far lievitare ad arte i prezzi dei biglietti. Vedete un po’ voi chi vi sembra più onesto con sé stesso.
Quanto alla veridicità dei fatti, viene specificato a priori che il film si basa su “verità e bugie”, e se la vera storia la possono conoscere fino in fondo solo i protagonisti, c’è da dire che quella di Lords Of Chaos è in pratica solamente la campana dei Mayhem, laddove le altre non verranno minimamente ascoltate e/o prese in considerazione.
Inutile quindi arrovellarsi il cervello per verificare se sia andato tutto effettivamente così o meno, anche perché, fra i molti mostri che il black metal ha generato, vi è una pletora di personaggi spesso totalmente privi di spessore che, nel goffo tentativo di assurgere a “leader” presso i loro sodali, ribaltano ad arte le proprie gesta alla stregua di un trionfo Tolkieniano per raccontare sé stessi come i “meglio fighi” più “trve evil” della scena, mentendo clamorosamente e rivelandosi unicamente come autentiche macchiette buone solo a strappare risate (e la Norvegia di sicuro ha avuto le sue, anche se in Piemonte, specie nel torinese, abbiamo avuto esempi ben più emblematici).
Non bisogna poi dimenticare che, alla fin fine, quei ragazzi, benché di indole differente dai popoli latini, erano né più e né meno una delle tipiche compagnie di ragazzini metallari: casinisti, eccessivi nelle pose, assetati di birra e facili ai proclami forti cui non crede nessuno.
Dei cazzoni come tutti gli altri loro omologhi, dunque, e non delle specie di divinità oscure fuoriuscite da un calderone infernale. Semplici ragazzi che non si conformavano ai trend dettati dai media commerciali, ma che di maligno, ancorché esoterico, non avevano proprio nulla, e ve lo dice uno che nei 90s ebbe la fortuna di conoscerli più o meno tutti, trovando nel solo Proscriptor degli Absu (un texano) l’unico serio, sincero ed appassionato studioso e conoscitore di certe tematiche occulte.
In ultima analisi, Lords Of Chaos è un film che non centra minimamente il bersaglio, lasciando la netta impressione che scelte più accurate e differenti avrebbero sortito ben altro effetto: dal regista (potendo sognare, uno avrebbe scelto magari Nicolas Winding Refn, ma sarebbe stato bello se ad occuparsene fosse stato anche “solo” uno come Panos Cosmatos, dietro alla macchina da presa nel superlativo Mandy) agli attori (nessuno si aspettava i nomi più in voga ad Hollywood, ma bastava poco per trovare di meglio rispetto a questi malaccorti mestieranti) passando per il mood (che doveva semmai essere quello più algido del notevole Metalhead, anziché questa specie di versione semiseria di Deathgasm che, complice il deprecabile impiego dell’idioma inglese, finisce per sembrare una specie di teen-movie a stelle e strisce) e finanche per la colonna sonora (per evidenziare certi passaggi avrebbe semmai giovato della sana dark ambient, tipo quella che Atrium Carceri ha confezionato per l’eccelso Sinister).
Occasione sprecata e rewatch assolutamente non in programma, ma non mancherà chi questo film se lo farà piacere comunque, anche solo per tentare goffamente e ostinatamente di “andare controcorrente”.