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Francis Harbour – Come sopravvivere a una tempesta invisibile

Qui si parla di Invisible Storm, EP di Francis Harbour, in uscita per cazzi propri in questo infettivo 2019.

Francis Harbour alias Francesco Farinola, (da leggersi con la o di Cerignola, immagino) non è altri che il chitarrista dei Cancrena, storica thrash band pugliese definita da qualcuni con poca fantasia “li Pantera de la Puglia”.
Il loro chitarrista deve aver sentito la necessità di tirare un solco tra se e la brutalità della band madre, concedendosi una parentesi più intimista, trascinando le dita e il cuore feriti in questo piccolo nido acustico. Invisible Storm, Ep realizzato e messo in giro sullo stravasto mercato indipendente, senza troppe domande su come e chi l’avrebbe comprato.

Si avverte una sotterranea fregola di sgravar via qualche spina dal cuore. L’interpretazione vocale e l’attitudine d’accompagno di Francis Harbour, rimanda alla scuola di interpreti rock americani dei primi anni 90 (Alice In Chains, Guns, Savatage) ed è quasi una roba cruenta e scapestrata a modo suo. Una cosa alla “vaffanculo, le canto e le suono io finché non viene giù il cielo”.

Bisogna ammettere che il risultato sorprende. Magari avrebbe potuto essere un progetto più ambizioso e curato (specie la confezione) ma tutto sommato, questa mezza dozza di “ballate arrabbiate”, risulta fluida e torbida come la malinconia chimica della pioggia cittadina che si accanisce sul vostro derma raggelato.

Da menzionare il lavoro di arrangio del pianista Alex Terlizzi, che rifinisce e leviga la mestizia cadaverina dei passaggi più dimessi dei brani.
Qui di seguito parliamo direttamente con Francis Harbour del suo Invisible Storm.

Ciao Francis. Allora, l’Ep si apre con una specie di canto monastico, mi dici esattamente di cosa si tratta?

È un canto rituale hawaiano per invocare lo Spirito di Aloha. Se si pensa alle Hawaii, di solito vengono solo in mente le onde e i surfisti, ma lì invece c’è una filosofia antichissima molto affascinante.

Wow, questa mi mancava… Ma tornando al disco, si nota una certa veemenza in tutti i pezzi, una specie di urgenza. Non fraintendermi, sono canzoni curate e suonate bene, nell’insieme però escono in modo molto diretto e ruvido.

Esatto, urgenza. Ho registrato in poco tempo, e’ stata davvero un’esigenza. Le vocals le ho letteralmente sputate fuori.

Come è nata l’idea di inciderle? Le avevi messe via negli anni e alla fine hai deciso di pubblicarle o è stata una sequenza creativa unica e sono uscite fuori tutte in fila, quasi a sorprendere persino te?

Da molti anni avevo in mente di fare un progetto solista, acustico e di ballads. Alcune canzoni le avevo da diverso tempo, ma le ho riviste e riarrangiate. Alcuni brani li ho composti di getto… e sopratutto i testi e le metriche vocali sono venute fuori nell’ultimo periodo e abbastanza naturalmente.

Canti bene. Ti ispiri a Layne Staley, è palese, ma in certi momenti mi hai ricordato anche Tim Ripper Owens e Zachary Stevens. Riconosci un debito stilistico verso questi nomi?

Beh, grazie. E’ stata la prima volta per me davanti a un microfono. Nei 90 ero un adolescente e, come tutti, folgorato dal grunge. Gli Alice in Chains sono ancora tra i miei gruppi preferiti (…fino alla scomparsa di Staley, chiaramente).
Appunto Staley è sempre stato un mito per me: voce unica; le armonizzazioni sue assieme a quelle di Cantrell sono irripetibili.

Sono molto colpito dagli arrangiamenti al piano di Alex Terlizzi. Ha contribuito anche alla stesura dei pezzi o si è limitato a eseguire le tue idee?

Piano e tastiere sono state le ultime cose registrate. Io ho dato alcune indicazioni e linee generali ma poi ho lasciato lavorare la sua ispirazione e il suo talento: è un maestro di piano e un vero drago a suonare.

L’assolo di Dawn mi ha ricordato un certo Chuck Schuldiner. Non è facile prevederlo, magari in futuro saranno tutti come lui, ma a distanza di vent’anni dalla morte non sembra aver fatto così tanti proseliti. Il suo stile, la sua influenza la avverto nelle canzoni di certe band estreme, ma il suo modo di suonare è poco imitato, sbaglio?

Sì, Chuck Schuldiner è un altro gigante che negli anni mi ha molto ispirato ed emozionato. Come hai detto,
sopratutto nei soli dava un’enorme importanza alla melodia. La melodia è una cosa fondamentale per me
e speriamo che nel futuro le nuove leve si possano “connettere” a questo linguaggio melodico.

Forgotten A Nature mi ha spinto a immaginare una ballad di Zakk Wylde se avesse scritto qualcosa per Axl Rose. In un certo senso ci è andato vicino a suonare per i Guns ma fu congedato quasi subito, come decine di altri musicisti prima e dopo di lui…

Hai nominato 2 personaggi mica da niente… ehehe. Vedo che tutte le forti influenze che hanno generato questo EP si sentono eccome, e comunque mi fa piacere. Le ballad di Wylde sono superbe e sulla vocalità di Rose non c’è nulla da dire!

I testi li ho trovati piuttosto oscuri. Passi dall’introspezione alla proposizione. Sembra che tu cavi fuori da te il dolore e la rabbia e poi rivolgi esortazioni a fare lo stesso anche a chi ascolta.

Sì, all’inizio ti parlavo di esigenza. Questo EP ho “dovuto” farlo dopo un periodo un po’ complicato, abbastanza duro psicologicamente ma che mi ha permesso di capire molte cose e, in alcune parti, oltre a cercare di accettare il dolore senza combatterlo c’è anche un invito agli altri a farlo.

Per te la scelta di scrivere i testi in Inglese è stata immediata o hai pensato di provare anche con l’Italiano e non ha funzionato?

Scrivo testi da quasi 20 anni per i Cancrena. Per me scrivere in lingua inglese è quasi naturale. Non nascondo che mi piacerebbe provare con l’italiano, ma è davvero difficile.

Nel corso degli anni, dalla nascita dei Cancrena a oggi, hai avuto modo di vedere come si è evoluta la scena metal pugliese. Qualcuno che vive dalle vostre parti mi ha detto che se non fosse per le band locali, al sud non esisterebbe quasi il metal.

La scena al Sud Italia è tutt’altro che spenta o morta. Ci sono tante band davvero forti e valide e che da molti anni sono affermate non certo solo a livello locale. Poi in questi ultimi anni nuove realtà di management con passione e impegno hanno reso la situazione sempre più attiva e propositiva.

Come mai ti fai chiamare Francis Harbour?

Francis è il mio nome da sempre in ambito musicale. Per questo progetto solista ho scelto “Francis Harbour ” perché mi piaceva mettere insieme anche l’altra parte importante della mia vita , cioè il lavoro: sono agente marittimo e lavoro in porto… quindi Francis Harbour… Suona bene, no?