Destroyer è un film di Karyn Kusama uscito nel 2018.
Ci sono tanti attori che hanno giustamente guadagnato la loro fama grazie a virtuosi trasformismi. Per non citare De Niro, andrebbe bene anche Billy Bob Thornton, nome che al momento è un po’ scaduto, ma che sul finire degli anni 90 si dedicava con tanta bravura al camaleontismo, al punto che ci si accorgeva di lui solo leggendo i titoli di coda.
Il bisogno di affrontare un ruolo che richiede una mutazione fisica drastica è spesso dovuto all’esigenza di resettare dall’occhio dello spettatore un aspetto divenuto ormai iconico e quindi pregno di troppi ruoli e sogni già sognati. Il cambiamento dell’aspetto consente quindi all’attore di ricominciare da capo e tornare a sorprendere il pubblico passando da una via estetica inedita.
Molti attori belli invece si sbarazzano della propria bellezza per mostrare a tutti che sanno recitare davvero. I divi di Hollywood, quelli dall’aspetto avvenente, i sex symbol come Tom Cruise o Richard Gere, sono in qualche modo meno considerati bravi di chi ha un aspetto più normale. Philip Seymour Hoffman (r.i.p.) era visto come un grande attore ancora prima che morisse mentre Matthew McConaughey e Christian Bale hanno dovuto perdere molto peso e sottoporsi a un robusto sick-up per farsi prendere sul serio dal pubblico. Vengono in mente decine di esempi: Charlize Theron in Monster o Mel Gibson in L’uomo senza volto… insomma, avete capito.
Si tratta di una buona regola a cui prima o poi tutti i belloni di Hollywood si attengono per rifarsi una carriera: si deturpano, si sciupano, abbandonano lo charme e l’avvenenza e così la gente smette di invidiarli e ammirarli per l’armonia somatica e li apprezza come dei cazzo di attori veri.
E pure Nicole Kidman ha deciso di rinunciare alla propria bellezza e affrontare un ruolo complesso e discutibile. E fin qui tutto ok. Destroyer sulla carta avrebbe anche potuto essere il film giusto per l’occasione. Peccato che ci si ritrovi, noi spettatori, fin quasi alla metà della storia, a cercare di mandar giù l’aspetto dell’attrice, al punto che le sue fattezze ci distraggono dalla trama, nemmeno fossimo davanti a Elephant Man.
Non si tratta di un abbruttimento, è più uno stupro in faccia. In barba alla memoria storica che gli spettatori hanno della Kidman, forse qui si è un tantino esagerato. Più che il calcare la mano sul peggioramento fisico di una donna passatata attraverso venti anni di droghe e alcolismo, omicidi e cazzate immani (come avrete capito è una sbirra) qui sembra quasi che i responsabili del trucco abbiano applicato sull’immagine naturale della Kidman uno di quei giochi da social che ci fanno vedere, se clicchiamo e inseriamo una foto nostra nell’apposito riquadro, come saremo da vecchi.
Il film si apre con il primo piano dell’attrice, la camera parte dall’alone rosso da guasto terminale intorno agli occhi e poi ingrandisce sul pallore da emorroidi e cattiva alimentazione (che poi è l’originale della Kidman) e la parrucca grigio e piscio, lunga fino alle orecchie, calcata male.
Alla fine del film scopriremo come mai l’impatto iniziale col volto della protagonista sia così tremendo. E se lo rivedessimo un’altra volta scopriremmo che sì, la Kidman è fin troppo brutta ma meno della prima inquadratura. Solo che è quella a rimanerci in testa e ci sembra di vederla così per tutto il film. Durante la storia lei diventa leggermente meglio ma è pur vero che fa schifo su per giù sempre.
E possiamo immaginare quale alito esca dalla sua bocca appena si reca sul luogo del delitto, sempre nei primi minuti del film, e parla con due colleghi. Questi la trattano come fosse un impiastro insopportabile. Quindi è brutta e anche poco stimata. Ottimo.
Noi spettatori soffriamo con la Kidman. Non Erin Bell, il personaggio, di cui ci frega poco, ma con l’attrice Kidman, che ha scelto di rinunciare alla sua arma più potente e rischiarsela nel posto sbagliato e con la gente sbagliata.
Ogni grande attore, anche il più grande trasformista, ha un tallone d’achille. Si tratta della cosa più distante dal volto, che poi è la zona calda in cui si concentra tutto lo sforzo e il controllo della recitazione e della mimesi.
Vale a dire le gambe. La camminata.
Guardare la Kidman vestita come un detective poliziottesco alla Maurizio Merli e Franco Gasparri (parrucca compresa) è destabilizzante, ma se ci si concentra sul modo di avanzare un po’ a X delle sue gambone, ecco che la nostra salute mentale recupera di qualche passo. Il piccolo trotto valgo di quelle ginocchia riporta alla sensualità di To Die For e Eyes Wide Shut, anche se la confezione che riveste quell’andatura terrebbe lontane persino le mosche.
La camminata è la firma, comunque. Di qualsiasi attore. Imparate a riconoscerla e la vedrete sempre. In ogni film. Del resto se gli interpreti provassero a modificarla sarebbe come strappare l’ultimo pelo da dentro al naso: un vero casino.
Prendete Tilda Swinton quando fa il vecchio dr. Kemplerer nel remake di Suspiria. Non si può sopportare che mima l’andatura di un anziano. Si capisce che è lei. De Niro ha reso il suo corpo mille corpi, eppure la camminata a gambero è rimasta sempre la stessa. Un attore ha bisogno di un naso finto e basta, come diceva Laurence Olivier. O era Orson Welles? Poco importa: l’attore deve sapersi accontentare. Non può strafare, c’è bisogno che lasci respiro alla naturalezza del proprio corpo, affinché la parte “posticcia” riceva quell’energia naturale, quell’armonia genetica che arriva dalla parte lasciata libera di non fingere nulla.
In ogni caso Destroyer non è tanto un film sbagliato per via della sceneggiatura, come verrebbe da pensare. Phil Hay e Matt Manfredi sono gli stessi di The Invitation, quindi non degli stupidi. Io li ritengo molto più responsabili in qualità di produttori. Anche se non hanno una così vasta esperienza come può vantarla Fred Berger, che risulta producer anche lui con loro. Già responsabile di La La Land e The Autopsy Of Jane Doe questo bravo sovvenzionatore e forgiatore di progetti cinematografici vincenti, stavolta a cileccato di brutto. Chiaramente la responsabilità delle evidenti carenze tecniche è dei produttori. Avrebbero dovuto procurarsi qualche finanziamento in più o metterci altri soldi di tasca propria.
Facciamo due conti in tasca a Destroyer: è costato sui 9 milioni di dollari. Risale già al 2008 la notizia pubblicata da Forbes, che Nicole Kidman è la celebrità con il cachet più sproporzionato di Hollywood rispetto gli incassi dei suoi film. Facile immaginare che sia proprio la sua presenza ad aver gravato sul film. Di quei 9 zucconi almeno 8 devono essere serviti per pagare lei. E il resto non sarebbe bastato per un episodio di True Detective.
Che poi Destroyer poteva, come storia, funzionare benissimo lungo una stagione della serie di Nic Pizzolatto , magari per una volta proprio con una donna protagonista, e un racconto che gioca molto sulla sottrazione e lo scombussolamento temporale avrebbe forse avuto bisogno di ore e ore per dipanarsi bene, mentre come film, pur negli abbondanti 120 minuti, non tira fuori abbastanza materiale per tacerne il triplo.
Il sottinteso, il non detto, è qualcosa che non tutti possono permettersi di gestire. E la Kusama evidentemente non è all’altezza di un simile gioco. Ditemi se avete capito come mai la Kidman se ne andò in montagna in bocca a una tempesta di neve con le scarpe da tennis ai piedi e la figlia piccola in collo?
Non dite che è a discrezione dello spettatore capirlo. Per un film americano questa è una concessione troppo sospetta. Loro devono sempre spiegare tutto o quanto meno lo spettatore deve darsi risposte tra quelle che il film suggerisce possibili. L’episodio della montagna è semplicemente un buco.
Ma vogliamo parlare dei veri boia della situazione, i responsabili del trucco?
Sono loro a dover rispondere di numerose cosette. E non parlo solo del disastro con la Kidman, di come l’hanno ridotta (peggio di quanto possano aver fatto i chirurghi estetici nella vita vera) ma anche della parrucca inverosimile che porta il cattivone Toby Kebbell. Insomma, qui il problema è generale.
Per cominciare diciamo chi è la costumista. Audrey Fisher. Tedesca trapiantata in America. Non credo che possa davvero essere una fissata con Fabio Testi anni 70 e conosca il cinema di Di Leo, Castellari e co. Secondo me il vestiario della Kidman è indegno e basta. Quei pantaloni, che a un certo punto sembrano cambiare dal blu al grigio topo, sono la cosa più antifemminile che ci sia.
La Kidman matura di questo film è il contrario della sensualità. La milf meno sexy che ci sia. Sembra aver chiuso con il sesso in una sorta di parabola espiatoria di peccati lontani. Purtroppo al vederla nei flashback, che recita la trentenne sensualona e femme fatale al tempo del grunge (mentre è infiltrata in una gang di rapinatori di banche) risulta anche più traumatizzante e per nulla erettile, parlando da spettatore maschile o quantomeno lesbico.
In pratica in Destroyer è tutto un treno di anacromatismi (parola appena inventata per dire fuori tempo e fuori trucco). Nella prima parte c’è la Kidman che ha 52 anni e fa la ggggiovane insieme ad attori che hanno 36 anni di media ma si atteggiano a ventenni o poco più. Poi c’è la seconda parte, al giorno d’oggi, dove Nicole è l’unica ad avere 50 e passa anni ma è truccata come una settantacinquenne, mentre tutti gli altri personaggi sono attori trentenni truccati male da cinquantenni.
Questo film avrebbe meritato un’equipe alla Guerre Stellari e invece si è ritrovato dei normali truccatori che hanno fatto un lavoro mediocre. Oltre alla tedescazza che ho citato sopra c’è Bill Corso, che risulta il make-up artist assoluto (mecojioni) e l’altra è Barbara Lorenz, che si è occupata del tremendo lavoro con i capelli e le parrucche. SCALPI, direi più che altro.
Succedono cose strane a proposito dei capelli, su Destroyer. Fateci caso. Silas, il capo-banda, da giovane porta capelli lunghi che gli stanno di merda e sembrano ciò che sono: una parrucca sbagliata. Da uomo maturo, quando lui e il detective Erin Bell si incontrano, sta bruciando una parrucca tra le fiamme di un fuoco che ha acceso in terra e ha i capelli rasati, ma non è pelato. Altrimenti avremmo detto: lo era anche da giovane. Il tipico capo vanesio che non accetta la calvizie e preferisce girare con ridicoli tupé. Invece boh. Che senso ha quella parrucca che lui brucia. Cosa ci vuol dire? Altro buco.
E anche Petra (Tatiana Maslany), la donna del boss, la vediamo quasi sempre di spalle, inquadrata alla nuca, oppure a una certa distanza. Questa insistente sfuggevolezza, secondo me, non è frutto di chissà quale intento narrativo che lo spettatore deve cogliere, ma è solo un modo per risparmiare sul trucco.
L’andazzo devastato e dinoccolato della Kidman/detective Erin Bell, narrativamente fa pensare a uno di quei bei film orizzontali di Abel Ferrara e Nick St.John tipo Il cattivo tenente o King Of N.Y., in cui il protagonista ha le ore contate per fare qualcosa di buono prima che dio tiri lo sciacquone sulla propria vita di merda.
Qui Nicole gestisce un personaggio simile. Perdente, dannato e con un passato terribile, fatto di errori e sfighe e un casino antico che va assolutamente risolto prima della resa dei conti finale. La vendetta: che poi è la sola storia che gli americani ci raccontano da sempre: a si vendica su b. Fine.
Ma la matematica è una questione più pressante della banalità narrativa degli americani.
La Kidman nonostante l’aspetto da pensione avanzata ha solo 50 anni (come nella realtà). E questo perché i fatti della rapina finita male risalgono al 1992.
Non c’è una data dichiarata ma un indizio che si tratti del 1992: la colonna sonora.
A parte lo score di Theodore Shapiro, già in forza alla Kusama per Jennifer’s Body, che addirittura ricicla un pezzo di quel film della Kusana (The Body) per Destroyer, ma i brani usati nella parte in flashback è roba stoner-rock dei primi anni 90: ci sono i Kyuss, gli Sleep, i Godsmack, i Grant Lee Buffalo.
Scelte fighe, probabile omaggio della regista alla propria giovinezza (aveva 22 anni) ma che essendo i pezzi ascoltati dalla gang nei flashback e basta (e siccome sono diegetici) è innegabile che si tratti di un preciso rimando storico.
Se la Kidman nel 1992 ha sui 30 anni e la figlia concepita durante la preparazione del gran colpo ne ha sedici, se ne deduce che il film non è ambientato nel 2018 ma nel 2008. Dieci anni prima della realizzazione effettiva.
Già, la figlia Shelby (Jade Pettyjohn) che è la grana generazionale e famigliare di una poliziotta mamma non per scelta e pessima tutrice. La ragazzina vive con il padre adottivo, Ethan (Scoot McNairy), un altro trenta-quarantenne truccato dell’età che non ha, cinquantenne. Lui non si sa da dove arrivi e né dove debba mettersi, eppure c’è. La Kidman/Erin Bell vorrebbe trarre in salvo sua figlia dal giraccio che ha preso ma più ci prova e peggio si mette per tutti.
Noi spettatori siamo con lei ma quello che non ci entra in testa, e che la Kusama vorrebbe farci capire ma può farlo solo solo una volta che ci ha svelato il finale, è che…
ALLERTA SPOILER:
la Kidman è una pezza di merda. Il suo senso di colpa è ampiamente giustificato. E se prova a fare qualcosa di buono è tutta una farsa.
Questo salva per sommi capi un film dal ridicolo in cui pochi soldi e un pessimo assortimento di truccatori l’ha trascinato; un gioco narrativo di piani temporali che oggi però sembrano sempre di più l’unica cosa interessante del cinema di genere.
C’è un sacco di cervello dietro agli script dei film americani degli ultimi anni, ma i personaggi che restino nel cuore scordateveli. Qualcuno piange per il Joaquin Phoenix di You Were Never Really Here? No. E non piangeremo per il poliziotto interpretato dalla Kidman in questo film.
Inoltre Nicole dovrebbe stare un po’ più attenta: è la seconda volta che, per ottenere qualcosa, un personaggio interpretato da lei, finisce per fare una sega a qualcuno. Succede già nel sopravvalutato Il sacrificio del cervo sacro di Lanthimos e ora anche qui. Se continua così diventa la Madonna dell’ultima sega.
In ogni caso, il lavoro di mano di questo Destroyer risulta assai più disturbante di quello che si vede nel film del regista greco. Per prima cosa lei la fa a un malato terminale in pessime condizioni. E secondo: lei stessa è in pessime condizioni.