The End Machine è il disco degli ex Dokken George Lynch, Jeff Pilson e Mick Brown uscito per Frontiers Music nel 2019.
Il ritorno dei Dokken… O meglio, il ritorno di Mick Brown, Jeff Pilson e George Lynch + cantante, suscitava la mia curiosità. Sono un vero ossessionato dalla band di Under Lock And Key, quindi, anche se dopo le ultime uscite della band con la Frontiers e i videoclip non ufficiali sulle recenti prestazioni vocali di Don, abbia perso ogni speranza di vederli risorgere up from the ashes, resto sempre uno che sarebbe capace di trascorrere due ore sul sito dei Dokken a rimirare l’intero reparto fotografico della band, magari ascoltandomi in loop Dysfunctional (1995) o persino Long Way Home (2002).Quindi un ascolto a questi The End Machine (nome che non sa di nulla) come lo diedi al progetto T&N Slave To The Empire e al disco solista di Don Dokken Solitary, smaltendo poi una settimana di depressione per riavermi da entrambe le esperienze, non gliel’ho negato.
The End Machine (il disco si intitola così) è abbastanza indolore, da questo punto di vista. Poteva passare per il nuovo album dei Lynch Mob, se non avesse dei chiari rimandi all’esperienza anni 90 dei Dokken (dal sopracitato Dysfunctional a Erase The Slate).
Certi cori di Pilson e Brown sono un innegabile marchio di fabbrica del Dokken-style, nonostante la presenza del bravo ma abbastanza innocuo Richard Mason (cantante sia dei Warrant che in passato della band di George Lynch). Vengono in mente pezzi come Maddest Hutter o Inside Looking Out, quando si sente roba tipo Burn The Truth.
L’album è sicuramente buono, anche se non aggiunge un fico alle solite cose sentite dai membri dei Dokken in 30 di reunion, separazioni, progetti paralleli e così via. Troverete l’ennesima riedizione di ‘Till The Living End (Ride It) anche se decisamente migliore di qualsiasi tentativo fatto da Don a partire da Hell To Pay (ce n’è una sempre più spompa ogni disco che fa dal 2004) e la consueta girandola di accordi alla Is Not Love (Leap Of Faith) messa nel brano di apertura tanto per dire: ehi gente, facciamo le solite cose, state tranquilli.
Ma non ci si poteva aspettare qualcosa che non fosse referenziale. Ormai ogni band storica copia se stessa senza neanche fingere di no. E la cosa succede perché gli album sono banali pretesti per fare rimpatriate e magari concedersi un altro giro sulla giostria del rock and roll: tour, interviste, notti folli a base della mitica tripla V: Viagra, Voltaren e Vint-age.
La cosa curiosa è constatare come i Dokken (o meglio, i The End Machine) si concedano quella dose alternativa che si guadagnarono con le scellerate uscite anni 90, come se fosse parte del classico sound che il mondo si aspetta da loro. E quel mondo li applaude, per quanto nel 95 avesse schifato certe concessioni al mercato.
Ma se accade qualcosa di davvero interessante in questo fottuto disco, arriva proprio dagli accordi dissonanti e le sincopi ritmiche vicine a Soundgarden e Alice In Chains. Basta prendere Sleeping Voices o Bulletproof per rendersi conto di ciò che intendo.
Sorprende l’energia delle esecuzioni. Mick Brown nei dischi con Don sembrava un uomo finito, invece qui sta in forma e George Lynch, per quanto si lodi e si sbrodoli di note, è sempre un fuoriclasse che fa la cazzo di differenza. Se vi siete poi domandati cosa manchi ai “Dokken Dokken” degli ultimi vent’anni, a parte produzioni decenti e l’ugola del vecchio Don, beh è Jeff Pilson. Sentite quel suono sporco e moderno di basso, ascoltate la sua voce nei cori. Sono cose che non si comprano da un turnista.