Shock è il titolo del nuovo album dei Tesla, uscito nel 2018 per UMC.
Shock è senza dubbio un titolo forte e in gran parte fuorviante per l’ultimo lavoro dei Tesla. Non si tratta di una mazzata heavy come sono stati capaci di farne in passato ma un lavoro tranquillo, persino soft, con diverse ballate e salvo due o tre episodi, pezzi dal respiro piuttosto rilassato. Quindi non si capisce cosa dovrebbe shockarci.I Tesla di oggi hanno il pregio di concedersi di invecchiare anche sui dischi. Le canzoni rappresentano al cento per cento la band, eppure non si ha l’impressione di trovarsi di fronte al classico compitino di chi ama tenersi in allenamento e rispolvera le solite vecchie idee per accontentare i fanatici più fedeli e basta.
C’è il gusto e la ricerca di chi ama davvero scrivere musica e ne ha un bisogno genuino. Il segreto penso sia quello di non calarsi nei panni di ciò che i Tesla erano, di non tornare troppo indietro. Brani come We Can Rule The World o You Won’t Take Me Alive sono esempi di sobrietà e lucidità: non spingono sul pulsante nostalgia ma allo stesso tempo non vogliono nemmeno elevare la band a uno standard troppo babbione e accademico (come succede a Ron Keel che fa il re di Nashville dopo che per decenni è stato solo un puzzone spiantato che vagava per Sunset Blv.).
I Tesla sono sempre stati una spanna sopra tanti altri nella scena metal e hard rock americana anni 80. Mostravano una maturità e una sentore di storia del rock già ai tempi di The Great Radio Controversy o Mechanical Resonance. Magari Modern Day Cowboy o Hung Touch sono le tamarrate giuste per quegli anni, ma in ogni disco ci sono sempre state ballad e composizioni più aggressive che stendevano un ponte solido e suggestivo con il rock più longevo e di spessore, quello di gente come Rod Stewart o gli Stones.
I Tesla non hanno mai usato il vintage come costume stilistico (tipo i pur bravi Black Crowes) ma hanno semplicemente “saputo” esprimere un retaggio, anche negli anni in cui non andava assolutamente rifare il verso ai dinosauri degli anni 70 e bisognava somigliare ai Motley Crue o i Van Halen.
Un disco come Shock non mostra alcuna smania strana, anche nei momenti meno Tesla style (la quasi elettro… Shock) non puoi dire che stiano tradendo qualcosa o qualcuno, tanto meno se stessi. Fanno solo grande musica, o almeno ci provano, seguendo piste anche difficili. Non sono tipi comodi, come pure gli Winger, che in IV se ne uscirono con una cosa tipo Generica, quando tutti si aspettavano una riproposizione rivista e corretta di pezzi come Hungry.
C’è da dire che a tratti in questo album somigliano ai Def Leppard (non è necessariamente un difetto), soprattutto i cori di Comfort Zone, ma guarda caso il produttore è Phil Collen. Ed è vero che in certi momenti scivolano in manierismi imperdonabili per il loro livello (Love Is A Fire e Forever Loving You le devono aver scritte tra una seduta al cesso di Jeff Keith e una di Frank Hannon) però nell’insieme i Tesla spaccano ancora. Pur non inventando nulla, in Shock riescono a scrivere canzoni vere e che fanno pensare a oggi, non vent’anni fa, e sono nuovi inni da cantare, urlare, scapocciarsi su e giù tra le orecchie in un momento di spensieratezza o di frustrazione. In particolare mi riferisco a The Mission. Sfido il drago della rete a dirmi che non è un gran bel pezzo.