Warpaint è il nuovo album dei Buckcherry pubblicato da Century Media nel 2019.
Sono passati già vent’anni da quando l’esordio dei Buckcherry fu accolto come un piccolo evento: il riaffacciarsi del rock’n’roll stradaiolo all’apice della stagione nu metal. Certo, contestualmente c’era lo scan rock con Hellacopters, Turbonegro, Backyard Babies, Gluecifer; ma questi erano americani, erano su major, li chiamavano a Woodstock ’99… insomma, si parlava di altri ordini di grandezza. I Buckcherry intercettavano in giro quella voglia sommersa di rock frustrata da un periodo in cui Tommy Lee lo trovavi nel sex tape con Pamela Anderson se ti andava bene, nei Methods Of Mayhem in caso contrario (a me però non dispiacevano).
In realtà la definizione di nuovi Motley Crue si addiceva poco ai Buckcherry: poco sleaze, poco glam, tracce di metal giusto nella produzione di Terry Date. Il peso delle aspettative e dei fraintendimenti li schiacciò col fallimentare Time Bomb (2001) e il successivo split, fino al ritorno col botto grazie alla loro maggiore hit di sempre, Crazy Bitch.
Un pezzo a dire il vero più notevole nel titolo che nella sua effettiva consistenza, ma che diede la misura definitiva dell’identità dei Buckcherry: un onesto gruppo di classico hard rock americano sporcato di punk. Motley Crue, Black Crowes, Social Distortion, persino Kid Rock: ciascuno ci sentirà ciò che più gli aggrada o viceversa gli dispiace.
Loro, nel frattempo, da golden boys di fine millennio sono passati a gruppo regolarista che periodicamente pubblica album simili tra loro, dei quali Warpaint rappresenta il più recente esemplare.
Io ho un problema coi Buckcherry: non amo la voce di Josh Todd. Versione nasale e più aggraziata (è un difetto) del timbro a paperetta di Vince Neil, non mi pare che aggiunga, ma anzi tolga, in fluidità ai basilari pezzi rock del gruppo (per capire cosa intendo, un esempio in questo disco è la petulante Right Now).
Non sono tuttavia così autocentrato da condannare per una mia idiosincrasia la produzione di un gruppo che mantiene un buon seguito, meritandoselo con qualche buon pezzo anche in quest’occasione.
Ecco, se dovessi fare un’osservazione di marketing direi che tra questi non figura il singolo Bent, sorprendentemente poco catchy. Una scelta migliore sarebbe stata la solida title-track, oppure il riff stoppato di The Alarm, o ancora lo street-punk di No Regrets, e volendo la più levigata The Vacuum.
Ci sono poi le due ballad, genere verso il quale i nostri hanno sempre mostrato una buona inclinazione: a questo giro la carta su cui puntare è Radio Song, classica e sdolcinata il giusto, con un coro che non si dimentica.
Un’altra cosa che mi piace poco sono le canzoni il cui testo consiste in liste di città o nazioni in cui omaggiare il proprio pubblico (a meno che non siano Blood Of The Kings dei Manowar col verso Back to the Glory of Germany! e relativo codazzo di pittoreschi addebiti nazi-pop).
Vuole però il caso che la qui presente The Devil’s In The Details, posta in chiusura, sia il pezzo musicalmente più heavy del disco, obiettivamente una bella martellata. Discorso a parte, infine, per la cover di Head Like A Hole dei Nine Inch Nails, non indispensabile ma ben interpretata da Todd, che addirittura mi pare più espressivo qui che nei pezzi propri.
In conclusione mi sento di ribadire che i Buckcherry sono un gruppo che merita rispetto, anche se magari il rispetto non fa vendere dischi.