La gatta Begoria e la morte spiegata a mia figlia

Quando un bravo animale finisce sotto le ruote di una macchina, un ragazzino non se ne dimentica mai.

Pet Sematary – Stephen King

Qualche giorno fa mia figlia è venuta da me in preda a dei terribili singhiozzi. La nonna le ha detto che una vicina ha riferito di un gatto bianco e nero trovato morto davanti alla sua casa. Puzzava e la signora è stata costretta a liberarsene. Probabilmente era Begoria, perché non si vede da almeno due giorni e non si era mai allontanata da casa per così tanto tempo.

Begoria è il nome che le ha messo Cecilia, l’altra mia figlia. Non sappiamo dove l’abbia sentito. E prima ricordo che quella gatta aveva già un nome. L’ho dimenticato ma ce l’aveva. Da quando Ceci ha detto che si chiama Begoria, si chiama Begoria.

La gatta Begoria sembrava pazza. Almeno finché c’era l’altra più vecchia a dividerne coccole, cibo e spazio vitale. La gatta più anziana si chiama Buh! col punto esclamativo. Sarebbe il verso che si fa quando si vuole spaventare qualcuno. L’abbreviativo di bubbusettete!

Dopo che la famiglia Ceccamea si è separata, le due gatte hanno dovuto adeguarsi alla situazione. La nera Buh! è andata con Mara e le bimbe; Begoria è rimasta con me.

Io non amo avere animali in casa. Basto io a lasciar peli ovunque. E inoltre non sono un amante dei gatti. La loro compagnia ravvicinata mi mette ansia. Questo farà scendere la mia popolarità tra le signore single che non si perdono un mio post domenicale, ma è così. Non posso farci niente.

Begoria però non era matta. O almeno, da quando è rimasta da sola a difendere il giardino, ha smesso di fare la schizzata e si è comportata bene. Ha ucciso diversi topi, qualche vipera, lasciando spesso indizi masticati del lavoro svolto davanti, al portone di casa dei miei e davanti alla mia porta.

Dopo un po’ che non la facevo entrare, come era abituata quando in questa casa viveva Mara con le bimbe, ha smesso di provare a intrufolarsi e si è trovata una cuccia all’aperto, nel grande giardino di famiglia.

Non amo i gatti e non ne voglio, ma non è sempre stato così. Da piccolo ne ho avuti e li ho sepolti tutti nel giro di pochi mesi. Vivo da sempre in un posto in cui gatti e cani non sopravvivono molto a lungo. Ne ho visti morire diversi. La strada li fa fuori che è una bellezza. Anzi, una bruttezza. Sono sempre stato contrario ai regali pelosi di Nonna Lori perché ero certo che avrebbero generato un profondo dispiacere nelle mie figlie.

Begoria era sterilizzata. Voglio sforzarmi a dire che è. Parlo al presente. Non ho prove che sia morta. Niente cadavere, niente omicidio, come direbbe Jeff Dahmer.

In ogni caso mia figlia si è calmata ma è stato difficile e ci ha messo più di quanto oggi si riuscirebbe a tollerare una manifestazione luttuosa. Non riusciva a darsi pace che Begoria fosse morta.

Io all’inizio ho optato per la puntigliosità: poteva essere un altro gatto quello che la vicina ha trovato, le ho detto. “Magari Begoria torna e ti ci fai una risata”. E intanto pensavo: resta il problema che i gatti muoiono e questa bambina, mia figlia, io devo fare in modo che affronti la cosa.

Ma come?

Allora ho detto: “va bene, tesoro. Mettiamo che sia morta. È una cosa che succede. La morte è necessaria”.

Matilde ha ricominciato con i singhiozzi dopo avermi fissato inorridita per diversi secondi.

Bella prova: come vuoi che una bambina di 11 anni capisca che la morte è necessaria? Non l’hai ancora capito nemmeno tu, sotto sotto.

“La morte è necessaria” ho insistito. “Senza la morte non ti dispiacerebbe… della morte di Begoria!”

Ancora singhiozzi. La sto sotterrando di scemenze.

“Ok, mi sono subito incartato. Ma quello che volevo dire è che se tu fossi eterna e io e la gatta fossimo eterni, non ci vorremmo bene. L’amore è legato al fatto che non duriamo sempre. Ogni fotografia dice questo. Il tempo che passa. Ti guardo, a due anni, a cinque, e non mi capacito di quanto le cose siano diverse. Quanto tu sia diversa. E questo mi riempie di un sentimento triste e piacevole insieme: si chiama malinconia”.

“Ma questo che centra con Begoria?” ha chiesto mia figlia.

“Fammi finire. La malinconia è legata al dolore di quanto tutto ci sfugga di mano, di come le cose cambino, sempre. Fino alla nostra fine. Sai cosa mi disse il veterinario quando facemmo sterilizzare Begoria? Che stava male e che non sarebbe vissuta tanto a lungo. Magari non è stata una macchina a ucciderla… Sempre che sia lei la gatta bianca e nera che ha visto la vicina. Potrebbe essere morta per un male che aveva dentro”.

Matilde si è calmata un momento e io le ho messo un fazzoletto sotto il naso.

“Soffia” le ho detto.

Poco dopo ha ripreso a parlarmi: “Papà, io penso a lei, poverina. Era sola, capisci, e si è trascinata davanti al portone della vicina perché non sapeva più come trovare la strada di casa nostra. Forse chiedeva aiuto e ha provato a raggiungerci, ma di notte, piena di dolore, non ce l’ha fatta. Tu dormivi, i nonni pure. Nessuno l’ha sentita. E questo è triste, tanto. E mi fa piangere”.

Mentre tiravo fuori dal pacchetto un altro fazzoletto per tamponare le nuove lacrime di mia figlia, ho ricordato che Begoria si era fatta trovare davanti alla porta di casa mia, poche mattine prima. Una cosa che non capitava da tempo. Ho aperto ed era lì. Accucciata sul tappetino per pulirsi le scarpe. L’ho salutata e sono andato al lavoro e lei mi ha seguito fino alla macchina.

Poche sere dopo è morta sul tappetino per pulirsi i piedi di qualcun altro.

“Morire ci permette di apprezzare la vita” le ho detto io ancora. “Se noi non ci ammalassimo mai, come potremmo goderci la salute? Se non invecchiassimo mai, cosa sarebbe la gioventù? In un mondo senza morte saremmo infelici e probabilmente cercheremmo un modo per farla finita. La vita, a te ora non sembra così perché hai 11 anni, ma è una cosa che stanca e consuma. La morte è come un sonno, e questo non è un caso, no?”

Parlare a un bambino di morte è come spiegare a Vince Neil nel 1985 i pregi della vita casta e pura. Ti guarda e ovviamente non ha la più vaga idea di cosa tu stia dicendo. Ed è giusto così. La vitalità è l’opposto della morte. Non vuole proprio saperne. Ma la gatta Begoria probabilmente è la prima esperienza con la morte per mia figlia e avrei voluto esserle d’aiuto.

Purtroppo non me la sono cavata molto bene e alla fine ho fatto la sola cosa che dovrebbe fare qualsiasi bravo genitore quando un figlio non riesce a smettere di piangere: l’ho abbracciata e l’ho accarezzata tenendo chiusa la mia cazzo di bocca.

Più tardi mia madre ha portato Matilde a parlare con la vicina. A quanto pare la donna si era sbagliata a dire di aver trovato quel grosso gatto bianco e nero morto, due sere prima. Erano state tre sere prima! E Matilde si è ricordata che Begoria era viva ancora la mattina di due giorni fa. Quindi quel grosso gatto bianco e nero morto non era la sua gatta!

E così, mia figlia si è tranquillizzata. E non ha parlato oltre della micia. Dopo due giorni ancora dalla nostra conversazione singhiozzante, ho saputo da un sms di Mara, che è morto lo zio Renato. Stava molto male, purtroppo.

Sono entrato a casa dei miei, dove le bimbe erano al tavolo della cucina a disegnare ma ho esistato a dare la notizia. Ho temuto di farlo sapere a Matilde. Poi ho preso fiato e ho dato la notizia guardando negli occhi mia madre. Dopo un momento mi sono rivolto anche alle bimbe. Ceci mi ha guardato tranquilla. Forse non ha sentito cosa ho detto, ma in fondo lei zio Renato magari non ha neanche capito chi sia. Matilde invece dovrebbe averlo ben presente. E in effetti mi è sembrata un po’ sorpresa e spiaciuta ma non ha detto nulla e non è scoppiata a piangere.

Mi è parsa rattristata ma decisamente non quanto per la gatta, qualche giorno fa.

“Era malato, poveretto”, ho detto a mia madre.

“Ha finito di soffrire”, ha risposto Matilde.

L’ho guardata. Lei ha continuato a colorare uno dei suoi disegni, senza sollevare gli occhi dal foglio. “Come Begoria”, ha aggiunto. “Anche lei stava male. Te lo disse il veterinario quando l’abbiamo sterilizzata. E ora non soffre più. E nemmeno zio Renato, vero papà?”.

Ha smesso di colorare e mi ha guardato tranquillamente, fiduciosa.

“Vero” ho mormorato io.

Stavo per dirle che la gatta poteva essere ancora viva. La vicina si era sbagliata e…

Ma non ho detto nulla. Per mia figlia la gatta era morta. Begoria è morta. Punto. Non l’abbiamo più vista per troppo tempo. Ma nei due giorni trascorsi da quel lungo pianto fatto di mille singhiozzi, evidentemente Matilde ha dovuto rifletterci sopra. E ora ha reagito per un parente umano, con la tranquillità di chi crede che la morte non sia la cosa peggiore. Che è peggio il dolore e la malattia, rispetto al sonno eterno.

Ormai è una settimana, mentre scrivo, che Begoria è sparita. In cuor mio sento che la vicina, anziana e un po’ rincoglionita, abbia fatto confusione. Oppure, vedendo la bimba scossa, ha avuto la sensibilità di inventarsi un pasticcio di date e alimentare la speranza in Matilde.

Quello che mi colpisce è che mia figlia ha accettato la morte della gatta, e anche quella di zio Renato basandosi sulle mie parole. Stavano male, meglio così. Ha creduto alle mie spiegazioni. Le ha accolte e ci ha riflettuto, traendo rassicurazione e conforto da quello che le ho blaterato. Io invece non so cosa pensare riguardo alla morte. Non so se io alle mie parole ci potrò mai credere. Tutta quella cosa della necessità di andarsene per dare senso al resto e dell’amore che non potrebbe esserci se fossimo eterni…

Mia figlia sì. E io sono qui che penso a zio Renato e alla gatta Begoria e non riesco ancora a convincermi che se ne siano andati. Nessuno dei due.