The Razor’s Edge è un disco degli AC/DC uscito nel 1990 per la ATCO.
Ogni volta che risento The Razor’s Edge mi trovo di fronte alla questione di quanto sia possibile capire un disco e una band quando non si è vissuta la cosa cronologicamente. I non amici di Metal Skunk ci hanno fatto una rubrica dal titolo Avere vent’anni e sostengono da tempo la tesi che si possa parlare con cognizione di un album solo se lo si è “vissuto”. Se si era lì quando uscì, lo si ascoltò nei mesi successivi e magari si andò a vedere la band dal vivo nel relativo tour.Di sicuro album come Highway To Hell e Back In Black sono migliori di The Razor’s Edge. Se però dovessi scegliere un lavoro degli AC/DC da sentire il giorno che devo guidare un tir sulla città, allora sceglirei quest’ultimo.
Non vi racconterò cosa ero e facevo quando uscì, ci mancherebbe. Però devo dirvi che quei riff, i ritmi di batteria, i cori, ce li ho nelle ossa e nelle orecchie da tanti anni. E ogni volta che accendo lo stereo e lascio partire l’arpeggio di Are You Ready, brano assolutamente trascurabile nell’intera opera della band australiana, beh… a me si spiegano le ali dietro la schiena e sono pronto a spiccare il volo e andare a defecare sul capo di chi dico io.
The Razor’s Edge è il primo (e credo ultimo) album in cui gli AC/DC alzano un po’ il culo e si vanno a prendere gli applausi. Ci potete trovare Thunderstruck, che è l’ultimo singolo storico della band. Oggi roba come Moneytalks probabilmente sembra una cosa da bambini, e tanti lo pensarono quando videro il gruppo in tour, ma per qualche anno, e grazie all’incontestabile successo riscontrato, sembrava uno di quei pezzi destinati a durare nell’immaginario attorno alla band; un po’ come un altro pezzo che adoro e che è stato un po’ rimosso, presente nella colonna sonora di Last Action Hero, Big Gun.
Spesso mi ritrovo a parlare di quanto sia importante un produttore, e soprattutto un grande produttore, ma molta gente non riesce proprio a capirmi. Io credo che basterebbe fargli sentire Blow Up Your Video e The Razor’s Edge. Si tratta dello stesso gruppo (a parte il batterista e soprattutto un diverso produttore). Nel primo trovate un lavoro discreto e carino; nel secondo c’è l’Apocalisse in quattro quarti.
Non voglio esagerare ma per me la batteria di The Razor’s Edge è una specie di porta d’accesso al sottomondo. Avete presente quei tizi vestiti da pellerossa che suonano un tamburo vicino a qualcuno che sta in piedi fermo e con gli occhi chiusi? Si chiamano sciamani e il ritmo che muovono (perché non si limitano a suonare ma girano e girano intorno al tipo, finché il suono probabilmente non divena la sola cosa esistente nella loro testa) il ritmo che muovono serve a trasportarli in una specie di altra dimensione della consapevolezza interiore.
Ecco, lasciamo stare cosa sia il sottomondo e perché molta gente tenti di arrivarci. Di sicuro però il suono di batteria di Chris Slade, che molti ricordano come una specie di Michael Barryman che digrigna i denti dietro i tamburi del video di Thunderstruck, è la cosa più cicciosa e scombussolante che si potesse pretendere da un essere umano con un paio di bacchette in mano nel 1990.
Malcolm Young, pace all’anima sua, si ricordò di Slade per averlo visto a un concerto di spalla ai Deep Purple e Free nell’In Rock World Tour 1970-1971, a Sidney, mentre era nella band di Manfred Mann’s Earth Band. Non prendetemi per un esperto, l’ho letto su Wikipedia.
Oltre al ricordo del diciottenne Malcolm, Slade era nel gruppo di Gary Moore nel 1989 e quindi nello stesso management degli AC/DC. Iniziò con loro come session e infine fu assunto quale membro ufficiale.
Non so esattamente come andarono le cose tra lui e la band… ma andarono. Mai come nel caso di Chris Slade si è diffusa l’idea che suonare la batteria negli AC/DC sia uno dei lavori più belli (e facili) del mondo, ma io credo che quel tipo facesse una specie di magia che nessuno è più riuscito a ripetere. Lo hanno richiamato nella nuova formazione della band, a distanza di vent’anni quasi, e non è un caso.
Non ho idea nemmeno di come Fairbairn gli fece registrare quel cassa rullante, ma provate a mettervi le cuffie e chiudere gli occhi. Fate partire Got You By The Balls e aspettate che la chitarra caghi fuori il suo riff e Brian Johnson gorgogli fuori la sua strofa e vi troverete lasciati soli di fronte a un autotreno a fari spenti nella notte: quel cazzo di rullante cala su di voi senza pietà. Buuuum!
Magari provate le stesse cose ascoltando Kashmir dei Led Zeppelin, e vi capirei se fosse così, ma ciò che succede nella mia mente quando mi soffermo a sentire il tocco manesco di Slade su quel pezzo (e l’intero disco) è tipo che mi pianta nel terreno come un fottuto palo. Da lì, sprofondo in una specie di casa galleggiante sotterranea, fatta di terra bagnata, vermi e qualche strano essere che mi viene incontro con la faccia pelosa e gli occhi umani.
Non mi drogo, no. Mi basta la musica giusta.
Un’altra cosa che trovo assolutamente irrinunciabile su The Razor’s Edge è la title-track. Gli AC/DC ogni tanto hanno tirato fuori un lato inquietante. Prendete Hells Bells. Non parlo di tutta la retorica giocosa attorno al diavolo che potete sentire in Highway To Hell , la fashinazione di Ramirez, il Night Stalker per Night Prowler, e tantomeno i messaggi subliminali che sembrano esserci dentro certi lavori anni 70 della band. Io parlo proprio di quando il gruppo smette di fare Chuck Barry con gli ormoni e incalza come un temporale decisivo sulle vostre teste.
The Razor’s Edge è un pezzo strano e sa di esserlo, ma non ne paura. Se mai ne vuol fare. Prendete l’intero album, c’è la solita roba degli AC/DC: Fire Your Guns, Mistress For Christmass, sono pezzi dove si parla di divertirsi, donne provocanti e scatenate, goduria e altra goduria, con i riff enormi e avvoltenti e sospinti nei vostri culi a ritmo da falegname di Slade. C’è questa veste produttiva così grossa da far sembrare una scorreggia di Angus Young come una specie di impennata wagneriana. Una cazzo di festa spaventosa. Una roba da camionisti, va bene, ma forte.
Poi però arriva la tikketetrakkete. The Razor’s Edge vuol dire “il filo del rasoio”. Non è una roba concettualmente tanto fina, la band ha sempre usato modi di dire popolari figurati per far gridare un ritornello al proprio pubblico. Non sono mai stati troppo ambigui o controversi a livello di liriche. Però qui il pezzo sembra davvero una specie di enorme nuvolone di polvere che avanza dall’orizzonte.
Praticamente nel 1990 c’era una gran speranza nel mondo. Il muro veniva giù, finiva il Comunismo, la Guerra Fredda e tutto il resto che dice Gianni Minoli, ma gli AC/DC non si sono accodati alla festa. Avrebbero potuto esserne i massimi interpreti ma no. Provate a festeggiare mentre il riff di The Razor’s Edge avanza sulla vostra casa. Quel pezzo è tipo La maschera della morte rossa davanti al principe Prospero. Avete presente? Non ci potete riuscire a voltare il capo e rimettervi in danza, a costo di sentirvi patetici e idioti.
Brian Johnson blatera di eserciti, di guerre, di minacce immininenti. Immaginate quei ragazzini con ancora il ritornello giocoso di Moneytalks che si fermano e trattengono il fiato. Quali eserciti? Dove?
In fondo non si capisce molto bene cosa intenda la band con quel pezzo. Sarà il solito brano contro la guerra.
No, un cazzo. Non è un inutile pezzo sull’orrore della guerra. C’è persino chi ha pensato che il rasoio andasse inteso come lama, quella delle baionette, quindi del tipo che The Razor’s Edge era una canzone sul conflitto mondiale del 15-18.
No. In pratica gli AC/DC fanno per una volta le cassandre. Tutti si abbracciano e vagheggiano un futuro felice e di svolta ma loro indicano là davanti, in lontananza. Ecco il polverone alto che taglia in due l’orizzonte. Immaginate una roba alla Ken Shiro, scommetto.
C’è un messaggio in cima alla folla di elefanti di ferro che rotolano avanti ed è che il mondo non funziona neanche così. C’è un muro di meno a dividerci ma non cantiamo vittoria, l’uomo troverà il sistema per farsi male in qualche altro modo. Non dicono che è tutto senza speranza, ma poco ci manca.
E sentirlo gracchiare dalla band più pacioccona e prevedibile del rock and roll, è una roba forte. E ogni volta che lo ascolto mi immagino Brian Johnson che guarda sconsolato una folla di dinosauri e uomini con la clava che avanzano verso di lui. Non chiedetemi nulla. Vi parlo della mia visione pura.
Magari non vide l’11 Settembre. Era un fottuto alcolizzato ancora scosso da un divorzio e una mente piuttosto suggestionabile ma non fino a quel punto. Oggi però se ascolto l’assolo iniziale, che per molti è una specie di flamencata elettrica, io penso al medioriente.