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Rovdyr – Cinema nordico che sa di black metal

Rovdyr è  un flm di Patrik Syversen uscito nel 2008. Conosciuto anche col titolo di Manhunt.

Peccato non averlo scoperto quando stavamo preparando l’articolo sui 6(66) film più black metal della storia del cinema. Perché Rovdyr ci stava alla grande.

Non pensate subito alle band pittate che si aggirano per i boschi e si prendono a coltellate. Rovdyr è un classico horror ispirato ai filoni anni 70 quali lo slasher tipo L’ultima casa a sinistra (citato in esplicito con l’impiego finissimo di un brano scritto da David Hess in apertura, originariamente composto per il film di Craven) e il survivalism di Non aprite quella porta (l’anno in cui è ambientato Rovdyr è proprio il 1974, quando il film di Hooper uscì).

Ma al di là dell’operazione nostalgica tipica di tanto horror degli ultimi anni, quello che colpisce soprattutto lo spettatore è la totale mancanza di tergiversazioni. Il film di Syversen va dritto al sodo, alla fonte primitiva di un genere, l’horror, concepito per togliere ogni certezza, sballottarci fino al ciglio della pazzia e infine, sbudellarci.

Ed è un po’ come il black metal per la musica heavy: niente mediazioni, niente ammorbidimenti, niente sofisticherie produttive, scordatevi lo zucchero per la pillola, che in realtà è una grossa supposta.

Rovdyr è la storia di quattro ragazzi su un pulmino. Stanno facendo una gita ma tra di loro non tutto fila via. Il tipo alla guida è uno stronzo e tratta di merda la fidanzata. A noi frega poco di queste cose perché sappiamo che presto, siano piccioncini nell’idillio dell’accoppiamento o coppie in piena crisi, il bosco avrà fame e se li papperà.

Sapete, il bosco di Rovdyr è l’originale foresta maestosa e spietata di tanti artwork black metal e da solo spaventa più di tutto quello che Syversen poi deciderà di mostrarci.

La violenza arriva e spazza via caviglie e braccia. Non si sa perché e non c’è tempo di chiederlo. Bisogna scappare dietro ai protagonisti, divenuti improvvisamente le prede di un informe e disumano gruppo di cacciatori.

Non aspettatevi twist sorprendenti e tantomeno analisi sociologiche di redneck nordici, qui si tratta solo di portare in salvo il culo. Ed è proprio la riduzione all’osso, al netto puro del genere, che conduce a quel sapore da blacksting che dicevo prima.

Immaginate una tirata in blast-beat fatta di lame, grida agonizzanti contro l’indifferenza conifera e la cattiveria latrante in un horror che non concede niente a parte dolore e morte nel proprio vomito.

Di black metal in Rovdyr c’è anche la mancanza di sesso. Ce n’è tanto suggerito: una fellatio con un fucile a canna corta;

taaaaaac

un cadavere femminile con le mutande sporche di sangue rappreso lasciato a marcire dentro una tenda mimetica; un corteggiamento alla Cannibal Corpse intorno al corpo sudato e sporco di una accessoria e inutile final girl;

taaaaaaaaac

ma niente stupri, se non nell’accezione classicissima dell’arma da taglio come protesi del pene.

Se vi piace duro e diretto allo scopo, senza idee ma davvero malefico tipo un disco dei Carpathian Forest, segnatevi Rovdyr.

Non ci sarà pietà per il vostro cuoricino di pop-corn.

Ah, pare nel cast ci sia pure lui, ma io davvero non me ne sono accorto.